Only Murders in the Building – Stagione 4

Nella puntata conclusiva delle terza stagione avevamo visto Saz Pataki (Jane Lynch) venire uccisa da un colpo di fucile (Steve Martin). La quarta stagione si apre quindi con la preoccupazione di Charles per l’amica scomparsa, ma soprattutto con l’invito per lui e i suoi due colleghi di podcast Oliver (Martin Short) e Mabel (Selena Gomez) a recarsi ad Hollywood, dove la Paramount ha intenzione di girare un film tratto proprio dal loro podcast Only Murders in the Building.
Arrivati alla quarta stagione (che Disney Plus aveva tentato di farmi vedere un episodio alla settimana alcuni mesi orsono)  non si può negare che la formula indagine + star + siparietti comici nostalgici inizi a non funzionare più così bene. Il delitto da risolvere continua a rimanere tutto sommato marginale rispetto alle vicissitudini dei protagonisti, sempre più surreali e sconclusionate. La parata di stelle a ricoprire ruoli grandi e piccoli (Meryl Streep, Paul Rudd, Eugene Levy, Zach Galifianakis, Eva Longoria, Melissa McCarthy) non aiuta a recuperare la verve delle prime stagioni e la serie procede in modo faticoso e farraginoso per i dieci episodi. Personalmente, l’unico volto famoso che ho visto davvero volentieri, anche se per pochi minuti, è stato quello di Ron Howard. Tutte le altre celebrità interpretano ruoli sopra le righe, parodistici e sconclusionati, che non aiutano una storia già di per sé poco chiara, raccontata a forza di flashback nel tentativo di tappare i buchi, che però fallisce, così come anche la velleità di trovare un filo conduttore a partire dalla primissima stagione. Non si ride, non ci si emoziona, non ci si incuriosisce in questa sarabanda di scene surreali, slapstick e ingiustificate che ha chiaramente deragliato dai binari. Anche i riferimenti al teatro che tanto amavo sono quasi del tutto scomparsi. Restano molte citazioni cinematografiche (imprescindibili visto che la stagione è ambientata nel mondo del cinema) didascaliche e fini e sé stesse. Sono arrivata alla fine con grande fatica e rimasta quasi dispiaciuta per il finale di questa quarta stagione che ne annuncia inequivocabilmente anche una quinta in arrivo: non era meglio finirla qui? Anzi, meglio ancora, una stagione fa?

Eva Longoria / Selena Gomez; Eugene Levy / Steve Martin; Martin Short / Zach Galifianakis

Stanley Tucci in Italy

L’autobiografia di Stanley Tucci mi aveva lasciato, oltre all’acquolina in bocca, anche una gran curiosità riguardo la serie tv Stanley Tucci: Searching for Italy, che finalmente ora è disponibile (anche se solo la prima stagione per ora) su Disney Plus.

In cinque puntate il celebre attore americano di origini calabresi esplora altrettante regioni italiane (Toscana, Trentino, Lombardia, Abruzzo, Lazio) alla ricerca, oltre che dei paesaggi e luoghi più suggestivi, anche della cucina più tradizionale e dei piatti invece più insoliti e particolari.

Diciamo che il programma è interessante all’incirca come una puntata di Melaverde, e che se io non avessi letto nell’autobiografia di Tucci cosa significhi esattamente il cibo per lui e la sua famiglia potrei bollare la serie come “noiosetta”. Oltretutto sembra che io e Stanley abbiamo gusti estremamente diversi: di sicuro non condivido la sua passione per le interiora e le frattaglie di qualunque tipo.

La serie resta carina e con alcune curiosità interessanti sul nostro bel paese, ma se devo essere sincera a “Stanley Tucci che mangia cose” preferisco di gran lunga “James May che prova cose” o “Jeff Goldblum che guarda cose”.

The Hateful Eight

Anno: 2015

Regia: Quentin Tarantino

Interpreti: Kurt Russell, Samuel L. Jackson, Walton Goggins, Michael Madsen, Tim Roth, Jennifer Jason Leigh, Bruce Dern, Channing Tatum

Dove trovarlo: Prime Video

Una tempesta di neve costringe un gruppo di viaggiatori a rifugiarsi in un emporio. Non si tratta però di semplici estranei: ciascuno di loro ha un motivo per trovarsi lì e uno scopo ben preciso, e non si fermerà davanti a nulla pur di raggiungerlo.

Già la schermata con il titolo del film, che recita “L’Ottavo film di Quentin Tarantino”, ci anticipa che con The Hateful Eight il regista ha tutta l’intenzione di replicare se stesso e gli stilemi che lo hanno reso famoso: violenza, volgarità, dialoghi fiume, utilizzo innovativo della colonna sonora e montaggio imprevedibile. Ma se queste caratteristiche funzionavano benissimo in Le Iene, Pulp Fiction e Kill Bill, adesso invece non sono che stanche ripetizioni di se stesse utilizzate senza una logica. Insomma, se una volta Quentin Tarantino ci sorprendeva e ci faceva divertire, adesso l’unico che si diverte, forse, è proprio lui.

Credo proprio che da un regista così blasonato, un cast così spettacolare e un’idea di base stuzzicante, fosse lecito aspettarsi di più.

Invece The Hateful Eight (Gli Odiosi Otto) non è altro che un compendio di tutto ciò che definisce lo stile “tarantiniano” senza anima, senza divertimento, e a tratti disgustoso in maniera insopportabile per la violenza e la volgarità che mette in scena. E non mi riferisco ai tanti “motherf*cker”, ma alla totale mancanza di sensibilità e buon gusto di certe scene che non esito a definire repellenti.

Ci tengo comunque a salvare tutto il cast, che ha fatto un lavoro eccellente, purtroppo non supportato dalla regia, né dalla sceneggiatura.

Molti sono in questo film i veterani di Tarantino (Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Tim Roth e il recentemente scomparso Michael Madsen), ma chi a mio parere stava una spanna sopra tutti era Walton Goggins, che si conferma un interprete eccezionale.

Ma le ottime interpretazioni non bastano per salvare un film troppo lungo (poco meno di tre ore), reso noioso dalle ripetizioni continue dei dialoghi (perchè lui ha detto a lei prima che arrivasse lui quello che adesso dice a loro) e completamente affossato da una regia scellerata con voce narrante e colonna sonora utilizzate totalmente a casaccio.

Concludo con una nota personale che, a seconda di come la si prende, può essere deprimente oppure spassosa.

Naturalmente, visto il calibro degli attori in gioco, ho voluto vedere il film in lingua originale, ma conoscendo Tarantino e sapendo che sarei stata sommersa di parole ho preferito utilizzare i sottotitoli inglesi forniti da Prime Video. Ma quei sottotitoli avevano qualcosa di strano. Non coincidevano mai con il dialogo recitato, anche se grossomodo ne restituivano in senso generale. C’erano però anche delle frasi assurde, del tutto fuori contesto, che proprio non riuscivo a spiegarmi… Finchè non ho capito: i sottotitoli inglesi di Prime Video non erano una trascrizione dell’audio originale del film, ma una traduzione, probabilmente fatta con l’intelligenza artificiale o comunque con qualche software, dell’audio italiano.

Ed ecco che la battuta “Tutti contro il muro, forza!” viene sottotitolata “Against the wall, strenght!”. Oppure i personaggi, che sono tutti inspiegabilmente stanchi (“tired of”) di qualcosa, in realtà stanno mangiando lo stufato, e i sottotitoli traducono “stufato” con “tired of”, “stanco”.

Se pensate che i sottotitoli prodotti in questa maniera possano essere fonte di risate, è del tutto lecito. In caso contrario, non mi viene in mente nessun motivo per consigliare questo film, anzi suggerirei di starne il più possibile alla larga.

Voto: 1 Muffin Ipocalorico

Justified | Justified – City Primeval

Anno: 2010 – 2015 (6 stagioni) | 2023 (1 stagione)

Interpreti: Timothy Olyphant, Walton Goggins, Nick Searcy, Joelle Carter, Jacob Pitts, Erica Tazel, Natalie Zea, Jere Burns, Raymond J. Barry

Dove trovarli: Disney Plus

Protagonista indiscusso della serie è Raylan Givens (Timothy Olyphant), U.S. Marshal dal grilletto facile che, dopo aver eliminato l’ennesimo boss del crimine, viene mandato a prestare i suoi servigi nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto mettere di nuovo piede: Harlan, Kentucky, sua città natale.

Lo ammetto: è stato il cappello. Quello Stetson che lo US Marshal (traducibile con “sceriffo degli Stati Uniti”) non toglie mai e che già dalla locandina della serie mi faceva venire una gran voglia di western moderno. E non sono stata delusa. Se quello che ci racconta la serie Justified (basata sul romanzo di Elmore Leonard Fire in the Hole) è almeno in parte vero, c’è una vasta porzione del Kentucky che sembra davvero il selvaggio west che abbiamo visto in tanti vecchi film, in cui tutti sono armati e tutti nascondono qualcosa di losco e illegale in cantina o dietro casa. Ma per Raylan Givens l’intero territorio statunitense è un O.K. Corral in cui al cattivo si può sparare: se lui ha estratto la pistola per primo ma tu sei stato più abile e svelto, allora l’omicidio è “giustificato” (da cui il titolo). Ma il numero di uccisioni giustificate di Raylan è cresciuto a dismisura, e i suoi capi, coscienti della sua grande abilità e incorruttibile integrità, lo spostano da uno Stato all’altro finché ne rimane solo uno: il Kentucky, in cui Raylan è cresciuto e in cui si trovano ancora la sua famiglia, la sua ex moglie, le sue vecchie fiamme, i suoi amici, ma soprattutto i suoi nemici. 

Questa è la premessa di una serie che ho adorato dall’inizio alla fine per così tanti motivi che l’elenco sarà lungo, a differenza della durata percepita della serie: sei stagioni che sono sembrate una sola. All’inizio veniva raccontato un caso diverso in ogni puntata, e ciascuno di essi era pensato e scritto benissimo, ma presto gli autori hanno scelto di concentrarsi piuttosto su una storia principale, inserendo un nuovo “cattivo” in ogni serie come avversario di Raylan, e a mio parere la scelta è stata molto soddisfacente. Raylan Givens è un personaggio solo all’apparenza repulsivo per lo spettatore: troppo bello, troppo bravo, troppo pieno di sé; ma in realtà ci si affeziona subito sia alla sua integrità, così fuori posto in un contesto simile, alla sua grande sagacia e al suo umorismo. Ma naturalmente un personaggio così non potrebbe funzionare senza una serie di spalle adeguate, e qui entrano in gioco gli attori secondari, tutti bravissimi. E soprattutto dobbiamo parlare dei cattivi, che sono tutti diversi e tutti efficaci, ma su tutti troneggia la nemesi del protagonista, amico di gioventù e suo pari per fascino e astuzia: Boyd Crowder, interpretato magistralmente da Walton Goggins, la vera arma segreta della serie. L’eterno scontro tra Raylan e Boyd è coinvolgente e intrigante dall’inizio alla fine e dà vita ai dialoghi più sfiziosi.

Infatti un altro grande punto di forza di questa serie sono la sceneggiatura, originale e solidissima, e i dialoghi, elaborati ma mai noiosi, anzi sorprendenti.

Un’altra cosa che ho amato moltissimo è stata l’ambientazione così particolare: il profondo Kentucky, terra selvaggia e variegata, ricca di miniere di carbone in cui si sviluppano legami profondi quanto la terra che viene scavata, di campi coltivati su cui è meglio non indagare e di zone comandate da questa o da quella famiglia da cui è meglio stare alla larga.

Inevitabile quindi che questo reticolato di alleanze, rivalità e giochi di potere crei un tessuto meraviglioso in cui far sviluppare delle storie avvincenti.

Nel 2023 è stata realizzata una nuova stagione, Justified – City Primeval (“Città Primordiale”), che pur non avendo grossi difetti mancava di molti dei punti di forza delle sei stagioni precedenti: cattivi davvero memorabili, comprimari adeguati e un’ambientazione succosa (a Detroit succede di tutto, questo è certo, ma non è particolare come Harlan, Kentucky).

Inoltre le prime sei stagioni erano impreziosite dalla partecipazione di alcune grandi star della tv in ruoli più o meno corposi ma sempre rilevanti: Danielle Panabaker, Sam Shepard, Jim Beaver, David Koechner e a sorpresa il mio beniamino Patton Oswalt, oltre a molti altri.

In conclusione, consiglio senza ombra di dubbio la serie Justified (rigorosamente in lingua originale, magari aiutandosi con i sottotitoli perchè alcune parlate e alcuni termini non sono facili da capire): City Primeval non è altrettanto bella ma si guarda con piacere (anche grazie alla durata di soli 8 episodi) e ha una conclusione che lascia del tutto soddisfatti.

Fire in the hole!

Wonder Years

Questa serie tv americana andata in onda per due stagioni dal 2021 al 2023 non è affatto conosciuta, ed è un peccato perchè, pur senza uscire mai dai binari della sitcom, ha un’ambientazione non banale e riesce a essere a tratti davvero molto molto divertente.

Gli “anni meravigliosi” del titolo per il protagonista Dean (Elisha Williams) sono quelli del passaggio dall’infanzia alla pubertà. E fin qui niente di nuovo: sono moltissime le serie tv che hanno affrontato, con toni comici o seri, questo argomento. Ma la particolarità qui è che Dean è un ragazzo di colore appartenente a una famiglia benestante dell’Alabama alla fine degli anni ‘60, con tutto ciò che questo implica. La narrazione mantiene sempre un tono leggero e delicato, ma non manca di affrontare temi molto seri come la discriminazione razziale e il conflitto in Vietnam, lasciandoli però sullo sfondo delle vicende di una famiglia unita e solidale in tutte le avversità e disavventure. Il vero punto forte della serie sono le situazioni divertenti e le scene comiche, alcune davvero simpatiche e ben riuscite, anche grazie a un buon cast di protagonisti. E naturalmente non posso non citare colui che è il motivo principale per cui ho seguito questa serie: Dulé Hill, di cui già conoscevo il grande talento comico dalla serie Psych e che in Wonder Years ricopre il ruolo del padre di famiglia a cavallo tra la severità e la freddezza delle generazioni precedenti e la complicità ed ecletticità che i nuovi tempi richiedono ad un papà e ad un artista.

Una sola citazione da un discorso motivazionale da padre a figlio: “Son, you gotta learn your ABC: Always Be Cool”.

Vi ho convinti?

No?

E se vi dicessi che la voce narrante fuori campo, cioè quella di Dean che ormai adulto rivive i ricordi della sua adolescenza, è di Don Cheadle?

Ma solo se guardate la versione originale! Ma tranquilli, Disney Plus permette di inserire i sottotitoli!

La Gazza Ladra

Titolo originale: La Pie Voleuse

Anno: 2024

Regia: Robert Guédiguian

Interpreti: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan

Maria (Ariane Ascaride) lavora come donna delle pulizie presso diversi anziani, i quali le sono tutti molto affezionati. Credendo di non nuocere a nessuno, Maria inizia di nascosto a sottrarre denaro agli anziani che assiste per pagare lezioni di pianoforte per il nipotino.

Un furto effettivamente c’è stato: un’ora e quarantuno minuti della mia vita che nessuno mi restituirà mai. Non mi è riuscito di capire se La Gazza Ladra è una commedia che non fa ridere, un dramma che non fa piangere o un film di denuncia sociale che fa sbadigliare. La storia è quasi inesistente e si accartoccia presto su se stessa, lasciando lo spettatore alla noia di una trama che non ha sviluppo e non desta interesse. I personaggi sono tutti bidimensionali e, nel migliore dei casi, patetici nelle loro motivazioni e azioni, i loro comportamenti sono arbitrari e le loro reazioni confuse. Si potrebbe dire che l’intento del regista francese era quello di mettere in scena uno squarcio di realtà, in cui le persone agiscono senza coerenza in quanto esseri umani confusi e fallaci: ma in questo caso preferisco di gran lunga ascoltare chiacchiere di sconosciuti alla fermata dell’autobus. Almeno mi risparmierei la pedante colonna sonora al pianoforte, impossibile da identificare come intradiegetica o extradiegetica con gran confusione dello spettatore, e soprattutto le inquadrature e gli scorci da ufficio turistico della bella città di Marsiglia.

Voto: 1 Muffin

Le Assaggiatrici

Anno: 2025

Regia: Silvio Soldini

Interpreti: Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun

Nel 1943 Adolf Hitler decide di trasferirsi da Berlino a un nascondiglio più sicuro nella foresta tedesca, nella speranza di sfuggire così a ogni possibile complotto o attentato ai suoi danni. Sempre allo stesso scopo vengono selezionate, nel paesino più vicino al nuovo rifugio del Führer, otto donne giovani e sane il cui compito sarà quello di assaggiare quotidianamente i pasti di Hitler prima che lui li consumi.

Il film è tratto dal romanzo omonimo scritto nel 2018 da Rosella Postorino e ispirato alla vera storia di Margot Wölk, l’unica tra le assaggiatrici di Hitler a sopravvivere alla Seconda Guerra Mondiale, la quale ha deciso di raccontare la sua storia solamente nel 2012, ormai quasi centenaria, tale era stato il trauma procuratole da quell’episodio della sua vita. I personaggi e i dettagli della storia sono inventati, ma alla base rimane l’autenticità del racconto di Margot Wölk e della reale sofferenza delle donne tedesche durante la guerra. Il film è scorrevole e non annoia mai, pur raccontando una storia lontana dai clamori e dalla tragicità delle trincee. Ma anche il rifugio, chiamato la Tana del Lupo, è a suo modo una trincea, in cui otto donne, molto diverse tra loro, rischiano ogni giorno la vita: basterebbe infatti un solo boccone avvelenato, anche se destinato al Führer, per porre fine immediatamente alle loro vite. Vite che si assomigliano, anche se i personaggi, molto ben caratterizzati, sono tutti differenti per convinzioni, speranze e illusioni/disillusioni.

Le Assaggiatrici si aggiunge al lunghissimo elenco di film che raccontano la Seconda Guerra Mondiale, ma la sua forza è nella vicenda narrata, molto poco conosciuta, e nel voler raccontare senza giudicare punti di vista molto diversi, a volte in evoluzione, che le donne tedesche hanno sulla guerra in atto. Dal sostegno fanatico a Hitler, alla disillusione completa, alla speranza forse immotivata; dalla certezza della vittoria al desiderio di sconfitta per la propria patria, purché porti la fine del conflitto e di quella vita che non è vita.

Una visione non certo allegra ma molto meno drammatica di altri film sul tema, che porta a riflettere più che a piangere, pur provando una forte empatia per le vicissitudini di queste donne così lontane eppure così vicine.

Voto: 3 Muffin

Follemente

Anno: 2025

Regia: Paolo Genovese

Interpreti: Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo, Claudio Santamaria, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta

Anno: 2025

Regia: Paolo Genovese

Interpreti: Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo, Claudio Santamaria, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta

Piero (Edoardo Leo) e Lara (Pilar Fogliati) sono al loro primo appuntamento. Ma non sono soli: li accompagnano tutte le diverse personalità di ciascuno, ognuna pronta a dire la sua, litigare e prendere a tratti il comando. 

Erano anni che non ridevo così al cinema. Follemente, che sulla carta sembrava un Inside Out de noantri, è invece una delle commedia italiane più divertenti che io abbia visto negli ultimi anni. Paolo Genovese in veste di regista e sceneggiatore fa davvero un lavoro egregio nel mettere in scena una cosa molto complessa da rappresentare, cioè le sfaccettature e le contraddizioni della personalità. Dentro ognuno di noi convivono, e non sempre in armonia, un romantico, un sereno, un allupato, un ansioso, un pianificatore, un lunatico… E l’incontro/scontro tra questi lati di una personalità qui sono spassosi e messi in scena con semplicità ma grande efficacia. Ottimo lavoro di tutti gli interpreti, ciascuno perfetto nel suo ruolo e nel gruppo variegato e disfunzionale ma compatto che ognuno di noi ha dentro di sé. Alcune scene credo proprio che rimarranno nella memoria collettiva degli spettatori. Follemente (flolle-mente) si presta senza dubbio anche a letture più profonde dal punto di vista psicologico, ma io ho apprezzato sinceramente il lato comico e leggero.

Solo una nota: Marco Giallini avrebbe bisogno di essere sottotitolato. Io apprezzo la sua espressività, ma quando parla, tra la voce roca, le parole biascicate e l’inflessione romanesca, non capisco proprio nulla.

Voto: 4 Muffin

Il Seme del Fico Sacro

Titolo originale: Dane-ye anjir-e ma’abed

Anno: 2024

Regia: Mohammad Rasoulof

Interpreti: Soheila Golestani, Missagh Zareh, Setareh Maleki

Il seme del fico sacro, nome scientifico Ficus Religiosa, attecchisce sulle radici di altri alberi  e attraverso di esse penetra nel fusto; sviluppandosi infine dilania e uccide la pianta ospite. Questo ci viene spiegato nel prologo del film, ma è anche vero che il Ficus Religiosa è una pianta sacra per alcune religioni come il buddhismo. Con la scelta del titolo del suo film, girato a Teheran in clandestinità, il regista e sceneggiatore Mohammad Rasoulof vuole istituire un parallelismo tra il regime islamico instauratosi in Iran alla vita privata e i singoli individui che lo perpetrano. Il protagonista maschile del film infatti, Iman, lavora dopo la promozione a giudice istruttore governativo realizza che lui e la sua famiglia (moglie e due figlie adolescenti) sono in pericolo su due fronti: da una parte il governo islamico, molto esigente, severo e autoritario verso tutti i suoi dipendenti; dall’altra il fronte rivoluzionario, che vede in tutti i dipendenti dell’odiato governo dei nemici da abbattere. Pur essendo sostenuto senza riserve dalla moglie, Iman percepisce che le figlie invece simpatizzano con i rivoluzionari che chiedono libertà, uguaglianza e giustizia. La paura per la famiglia si trasforma in modo incredibilmente rapido in paura della famiglia, e Iman sembra perdere velocemente tutte le sue certezze, sentendosi impotente e privo di autorità sia sul lavoro che a casa e reagendo a questa paura in maniera scomposta e violenta.

Quello che il regista vuole raccontarci ha una duplice essenza: è la tragedia umana di un singolo uomo e della sua famiglia, narrata con un uso molto sapiente della tensione e un’ottima regia, e la tragedia di un intero paese strangolato da quel governo che dovrebbe prendersene cura come la pianta che si ritrova suo malgrado a ospitare il seme del fico sacro. Ciononostante sarebbe una semplificazione identificare in Iman il cattivo; sarebbe assurdo anche dire che il Ficus Religiosa è una pianta cattiva, mentre non è sbagliato dal punto di vista botanico definirla una “pianta infestante”. 

Il regime islamico di Teheran è appunto come una pianta infestante, che distrugge ogni forma di vita intorno a sé indipendentemente dal fatto che collabori alla sua sopravvivenza o meno: non solo chi ostacola questo regime è vittima di repressione e violenza, ma anche chi ne fa parte con sincera convinzione di essere nel giusto viene dilaniato dall’interno e finisce per soccombere alla paura, al dubbio e alla paranoia.

Uno sguardo profondo su una situazione storica, politica e sociale molto complessa, che il cinema iraniano continua a raccontare con coraggio nonostante i rischi che corrono tutte le persone coinvolte (la maggior parte degli interpreti e lo stesso regista hanno infatti abbandonato l’Iran al termine delle riprese).

Il Seme del Fico Sacro ha anche un valore puramente cinematografico nella costruzione di una parte finale tesa e intensa, che rende la durata percepita molto inferiore alle quasi tre ore reali.

Non a caso il film è stato candidato agli Oscar come miglior film internazionale, battuto però dal brasiliano Io Sono Ancora Qui; l’ondata di film di alta qualità che arriva dall’Iran (come ad esempio Il Mio Giardino Persiano o Leggere Lolita a Teheran) però ci deve far riflettere sull’urgenza di denuncia, racconto e condivisione degli artisti che sono in qualche modo legati a quel paese e alle sue fortissime contraddizioni. Una cosa infatti che colpisce molto è il vedere come anche chi fa parte attivamente del regime islamico non disdegni i prodotti della cultura occidentale (nel corso del film la Coca Cola scorre a fiumi, e una delle ragazze indossa una felpa con sopra Topolino): sappiamo che l’attuale governo iraniano ha cercato il riavvicinamento con l’occidente, in forte contraddizione con molti dei dettami della religione di stato, l’Islam, che impongono uno stile di vita decisamente diverso da quello occidentale, soprattutto alle donne.

Consiglio questo film a tutti coloro che desiderano comprendere meglio la rivoluzione islamica iraniana e le condizioni di vita in quel paese, ma anche a tutti coloro che vogliono godersi una interessante lezione di cinema.

Voto: 4 Muffin

A Real Pain

Anno: 2024

Regia: Jesse Eisenberg

Interpreti: Jesse Eisenberg, Kieran Culkin

Due cugini americani di famiglia ebrea polacca si riuniscono per un tour organizzato della Polonia che si conclude con una visita alla casa della loro nonna mancata di recente.

Forse sono io che non ho capito questo film, ma non ho provato e nemmeno colto questo “vero dolore” di cui parla il titolo. Sarebbe fin troppo facile dire che il vero dolore è quello provato dallo spettatore, ma non è vero nemmeno questo, perchè invece il film non è affatto male di per sè. L’idea di partenza, due cugini dai caratteri molti diversi ma molto legati fin dall’infanzia in viaggio alla scoperta del paese d’origine della loro famiglia, non è molto originale, ma nel film funziona grazie alla costruzione di questi due personaggi e alle ottime interpretazioni dei due protagonisti. Non per niente Kieran Culkin ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista per il ruolo di Benji, il cugino problematico, eccentrico ed emotivamente instabile. Jesse Eisenberg, qui anche in veste di regista, offre con il suo posato, timido, timoroso ed educato David un perfetto contraltare allo strabordante Benji. Peccato però che l’attesa reazione chimica dell’incontro/scontro tra questi due caratteri opposti non avvenga. La narrazione procede piatta, le emozioni sono sempre ovattate, mitigate, accennate, senza drammi né scontri né evoluzioni. La visita ai monumenti ai caduti in guerra di Varsavia, al campo di concentramento, alla casa della nonna: nessuna perdita, nessuna tragedia, storica o personale, smuove gli animi dei personaggi nè degli spettatori, e al termine della visione si ha la sensazione che qualcosa sia rimasto sospeso, incompiuto, non detto. O che semplicemente non abbia funzionato. La locandina prometteva risate e lacrime, entrambe non pervenute. Non aiuta la regia di Jesse Eisenberg, che costruisce inquadrature e scene solo apparentemente significative e utilizza malamente la voce fuori campo e i dialoghi, troppo freddi e didascalici anche nelle scene potenzialmente più intense. Forse il “vero dolore” è proprio l’incapacità dell’uomo contemporaneo di provare dolore, l’apatia e abulia generalizzata della cultura occidentale? Il “vero dolore” si trova proprio dove sembra non esserci alcun dolore? Questa è una teoria di cui non sono affatto sicura e che non mi soddisfa, così come non mi ha soddisfatto il film. Non posso stroncare A Real Pain, ma non lo posso nemmeno consigliare. Posso dire che si tratta, secondo me, di un’occasione mancata, in cui però il risultato è esattamente uguale alla somma delle parti e nulla più.

Voto: 2 Muffin