Deloris Van Cartier, cantante in un casinò, assiste per caso ad un omicidio a sangue freddo commesso dal suo uomo, Vince, boss della malavita di Reno. Quando Vince ordina ai suoi scagnozzi di eliminare la scomoda testimone, Deloris si rivolge alla polizia, che le offre protezione se accetterà di testimoniare in tribunale; in attesa del processo dovrà rimanere nascosta nell’ultimo luogo in cui Vince penserebbe di cercarla: un convento.
Sister Act (ho volutamente omesso l’imbarazzante sottotitolo italiano “una svitata in abito da suora”) è a tutti gli effetti un classico della commedia musicale hollywoodiana, genere in cui il regista Emile Ardolino, che ha diretto anche Dirty Dancing, si trova decisamente a suo agio. Non è un vero musical, ma i numeri musicali (bellissimi, divertenti e ancora oggi efficaci) sono perfettamente funzionali alla trama, arricchiscono e danno brio al film. Per Whoopi Goldberg è impossibile deludere, il personaggio di Deloris le viene cucito addosso in modo perfetto. Maggie Smith, anche lei come sempre magistrale, le fornisce un contraltare eccezionale con la sua Madre Superiore rigida e seriosa. Anche se si tratta di una commedia brillante Sister Act trasmette comunque un messaggio positivo e che non è ancora passato di moda: spesso l’amicizia e la comprensione si possono trovare anche nelle persone che sembrano più diverse e incompatibili. La simpatia dei personaggi e la bravura degli attori, nessuno escluso (anche se credo che Harvey Keitel, che in originale simula un accento italiano, potesse fare meglio) fanno perdonare tutti gli stereotipi (tipici del genere e sempre funzionali alla trama, come gli scagnozzi del gangster o il poliziotto corrotto) e le forzature della trama (come la scena del Papa che assiste alla messa al Santa Caterina). Indimenticabile la scena finale con inseguimento delle suore all’interno del casinò. Ha avuto un seguito, Sister Act II, dignitoso ma non all’altezza. Dopo la visione di Sister Act assicuro che chiunque, a prescindere dall’età e dalle convinzioni religiose, si ritroverà a cantare appassionatamente I Will Follow Him.
Alle medie io e la mia migliore amica prendemmo una cotta per lo stesso ragazzo: giravamo tutti i pomeriggi intorno a casa sua, a scuola lo cercavamo con ogni scusa e pendevamo senza pudore dalle sue labbra. Alla fine lui scelse la mia amica, ma a me rimase comunque qualcosa che mi cambiò la vita, un libro di cui non avevo mai sentito parlare ma che mi ero procurata e divorata perchè piaceva molto a questo ragazzo: la Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams. La passione per questa fantastica “Trilogia in cinque parti”, opera di ingegnosa fantascienza raccontata con impeccabile humor britannico, curò in men che non si dica il mio cuore spezzato, che iniziò a battere freneticamente per le spassose avventure del terrestre Arthur Dent che, salvato dalla distruzione della Terra, si ritrova a vagabondare per l’universo con altri scalcinati personaggi. Di lì a poco avrei scoperto anche i Monty Python (con cui Adams collaborò per un episodio del Flying Circus), ma la mia anglofilia era già potente e mi fece innamorare della scrittura allo stesso tempo arguta e divertente di Douglas Adams. Al mio primo viaggio in Inghilterra mi procurai la versione originale (allora si doveva fare così…), con disperazione di tutti gli amici e parenti cui già da mesi propinavo letture dei brani più significativi (prediligevo l’incontro tra Arthur e la creatura da lui inconsapevolmente uccisa in diverse sue reincarnazioni). Credo che a questo punto non sia difficile immaginare come reagii alla notizia che stava per uscire un film tratto dalla Guida Galattica. L’entusiasmo si intiepidì solo quando mi accorsi che in Italia il film usciva in appena una manciata di sale (tutte fuori portata) per rimanerci appena per un weekend: avrei dovuto attendere ancora a lungo per poterlo vedere!
Ma mi dissi: niente panico! Coincidenza volle, infatti, che mi trovassi a Londra proprio in quel periodo. Ormai non davano più il film al cinema, ma una cosa era rimasta: una mostra in cui era possibile visitare i set cinematografici del film! Mi immersi così anima e corpo nel mondo creato da Douglas Adams, incontrai i temibili Vogon, ascoltai il robot Marvin parlare del suicidio e attraversai porte che al mio passaggio mi apostrofarono così: “Grazie per aver reso felice un’umile porta!” Ma quella davvero felice ero io! Salii perfino sul carrellino elevatore giallo che si vede anche nel film, lo stesso toccato da Martin Freeman (che ancora non era diventato né Watson nè Bilbo Baggins). All’uscita mi proposero di acquistare la mia foto sul carrello per una cifra abnorme, così fui costretta a rifiutare (quanto me ne pento!) e mi accontentai di comprare tutte le matite e le calamite disponibili nello shop. Una di queste è arrivata fino a noi (vedi foto). Molto tempo dopo riuscii finalmente a vedere anche il film, che però mi lasciò delusa. Pur avendo un buon cast, tutti i tempi comici erano sbagliati, e non era lontanamente divertente quanto il libro. Tuttavia sarò sempre legata al film di Garth Jennings del 2005 che mi ha permesso, anche se per vie traverse, di vivere un’esperienza davvero indimenticabile! Quindi, anche se il ragazzo dei vostri sogni vi snobba per la vostra migliore amica, non colpitelo con un asciugamano (!) bagnato!
Enzo Ceccotti è uno spiantato di mezz’età senza famiglia né amici che sbarca appena il lunario con piccoli reati e si nutre esclusivamente di budini e film porno. Ma tutto cambia quando, per sfuggire sia alla polizia che a un paio di criminali, decide di gettarsi nel Tevere proprio nel punto in cui si trovano alcuni bidoni di scorie chimiche. Quando riemerge, Enzo si rende lentamente conto di aver acquisito una forza sovrumana, che decide subito di sfruttare per i suoi intenti criminali, fino a che non si ritrova a dover badare a Alessia, giovane con disturbi mentali il cui padre è stato ucciso durante un’operazione criminosa andata male. A complicare ulteriormente le cose c’è poi lo Zingaro, che intende scoprire ad ogni costo l’origine dei suoi superpoteri.
Non guardo quasi mai film italiani, ma per questo ho seguito il consiglio del mio critico cinematografico di fiducia (non Mereghetti, non Morandini, bensì il mio papà) cui il film è piaciuto. E per fortuna l’ho fatto, perchè partivo con molte riserve e invece il film mi è piaciuto moltissimo. La forza di Lo Chiamavano Jeeg Robot non è certamente nella trama, che è il classico racconto della nascita di un supereroe come ne abbiamo visti tanti, ma nei personaggi, nel linguaggio e negli attori. Enzo è il tipico misantropo che riscopre di avere sentimenti e una coscienza, ma Claudio Santamaria lo interpreta molto bene, senza mai strafare, e gli presta la sua voce profonda come già aveva fatto in passato con Batman, sia per la trilogia di Christopher Nolan che, in chiave autoparodica, per il Batman di Lego. A dare forza al protagonista è in realtà il suo rapporto con il personaggio di Alessia, splendidamente interpretata da Ilenia Pastorelli, bella e infantile, appassionata e profondamente traumatizzata, che riesce a far emergere tutto il buono che era sepolto in lui. Un bell’applauso lo merita senza dubbio Luca Marinelli per il suo Zingaro, la cui ossessione di rivivere il momento di gloria televisiva avuto tanti anni prima grazie al programma Buona Domenica lo trasforma in un supercattivo davvero efficace, un’ottima nemesi per l’oscuro e silenzioso Enzo. Anche se l’idea di un supereroe che parla in romanesco sulla carta può far sorridere, nel film si rivela invece una scelta efficace: lontano dalle forzature che forse un italiano troppo patinato avrebbe rivelato, l’uso del dialetto da parte dei personaggi contribuisce invece al realismo. Gli effetti speciali, molto lontani dall iperrealismo della CGI americana, sono tuttavia sufficienti ai fini della narrazione, e tutto il lavoro registico (montaggio, inquadrature) è ineccepibile. Nella storia e nel finale (con immancabile posa sul Colosseo) tutto è rassicurantemente prevedibile, ma secondo me un film italiano che regala personaggi e scene ben costruite come questo è davvero un gioiellino. Di cui spero nessuno faccia mai un sequel.
Miles è uno sviluppatore di videogiochi solitario che passa la maggior parte del suo tempo incollato allo schermo del computer o dello Smartphone. Un giorno si imbatte casualmente in Skizm, un sito internet che trasmette a pagamento violenti scontri mortali, e colpito dalla sua immoralità ricopre di insulti telematici il suo gestore. Quest’ultimo però lo rintraccia e dopo avergli inchiodato due pistole alle mani lo costringe a scontrarsi con Nik, la più abile assassina di Skizm.
Guns Akimbo è un film di puro intrattenimento, molto violento ma a tratti divertente, che pur non partendo da uno spunto particolarmente originale (la trama è praticamente identica a quella di Death Race, che però è fatto molto meglio sotto ogni punto di vista, e lo stesso vale per la generica denuncia della crescente morbosità e amoralità del pubblico televisivo o di internet). L’ex Harry Potter Daniel Radcliffe se la cava senza lode né infamia, così come il resto del cast, la sceneggiatura non offre grandi sorprese e non è certo di solida roccia, ma per passare un paio d’ore tra pallottole, schizzi di sangue e qualche risata il film va più che bene. La scena più divertente, anche se piuttosto forzata, è quella dell’incontro col barbone cui Miles chiede se può cortesemente infilargli i pantaloni.
Ma sono meglio i film o le serie tv? In molti hanno provato a dare una risposta a questa domanda, portando diversi argomenti a favore dell’una o dell’altra squadra. Le serie tv hanno raggiunto (almeno alcune) livelli qualitativi che nulla hanno da invidiare ai lungometraggi; l’esperienza in sala (almeno prima del Coronavirus) permette un’esperienza emozionale e sensoriale che un diverso tipo di schermo non può offrire; essendo gli episodi brevi, le serie tv sono più facilmente fruibili; il cinema non è solo intrattenimento ma è anche cultura e storia, argomento studiato anche nelle università più prestigiose. Non è certo mia intenzione dare una risposta univoca e definitiva ad un quesito che probabilmente non ne ha una, ma voglio portare l’attenzione su una serie tv che ha tra i suoi punti di forza proprio il continuo intrecciarsi con il mondo del cinema: Psych.
La serie, iniziata nel 2006 e conclusasi nel 2014 con l’ottava stagione, ha avuto un grandissimo successo di pubblico e di critica, tanto da guadagnarsi anche due film, Psych: the Movie del 2017 e Lassie go Home, di cui si attende l’uscita, più uno spin-off animato, The Big Adventures of Little Shawn and Gus, tutti ideati da Steve Franks.
Psych è una serie crime, in ogni puntata c’è un misterioso assassino da scovare, ma spesso le indagini, che restano comunque interessanti da seguire, vengono messe in secondo piano dalle gag e dai dialoghi ricchissimi di citazioni pop e geek, che però non scadono mai nella farsa.
Shawn (James Roday) ha grandissime doti da detective, ma si rifiuta ostinatamente di seguire le orme del padre ex poliziotto (Corbin Bernsen) ed entrare in polizia. Invece apre con l’amico del cuore Gus (Dulè Hill) una fittizia agenzia investigativa e risolve i casi fingendo di possedere poteri psichici. Mantiene il suo segreto anche con gli amici del corpo di polizia, con cui spesso collabora: la detective di cui si innamora, Juliet (Maggie Lawson), il detective tutto d’un pezzo Lassiter (Timothy Omundson), il capo del dipartimento di polizia di Santa Barbara (Kirsten Nelson) e l’eccentrico anatomopatologo Woody (Kurt Fuller). La congiunzione con la settima arte si struttura su diversi livelli, in primo luogo i dialoghi e le battute, che come accennavo pullulano di citazioni e riferimenti cinematografici. Poi ci sono le trame dei singoli episodi, che a volte ricalcano diversi aspetti di un film celebre: troviamo ad esempio una puntata a tema Shining, una sul Mistero della Strega di Blair, una interamente dedicata ad Alfred Hitchcock e, la mia preferita, che omaggia Signori il Delitto è Servito addirittura con due membri del cast del film, Christopher Lloyd (che è anche produttore della serie) e Leslie Ann Warren. Poi ci sono gli attori e le attrici famosi che compaiono come personaggi in una o più puntate: Cary Elwes, Tim Curry, Christine Baranski, Val Kilmer, William Shatner…. Ultima cosa, in omaggio ad un mio guilty pleasure personale, spesso compaiono ospiti le star della WWE (John Cena, Brie e Nikki Bella, The Miz, The Big Show, che ora ha un suo “Big Show” divertentissimo su Netflix). E non ho ancora detto che alcune puntate comprendono delle canzoni originali, in perfetto stile musical (la più bella è quella su Jack lo Squartatore nell’ultima stagione), cantate dal cast che è davvero fantastico e non sfigura mai nemmeno davanti alle più alte celebrità. Psych è una serie godibile per chiunque, ma particolarmente consigliata ai cinefili che amano cogliere riferimenti e citazioni. Potete trovare tutte le otto stagioni su Amazon Prime. Buona visione!
Il piccolo Antoine, che in famiglia non trova alcun affetto (la madre pensa solo a se stessa e il patrigno alle corse automobilistiche), inizia con i cattivi comportamenti a scuola per arrivare poi al furto e alla fuga. Finisce dunque in riformatorio, ma riesce a scappare.
Primo lungometraggio di Truffaut, allora giovane ma già affermato critico cinematografico per i Cahiers du Cinéma (l’unico cui Alfred Hitchcock accettò di concedere una lunga e meravigliosa intervista), I 400 Colpi spicca tra i titoli cardine della Nouvelle Vague francese insieme ad altre pellicole capitali come Fino all’Ultimo Respiro di Godard, che uscirà l’anno successivo. Truffaut attinge al suo vissuto personale per raccontare la storia di Antoine, interpretato da Jean-Pierre Léaud anche in altri quattro titoli sempre diretti da Truffaut, giovane disadattato perché cresciuto senza bussole affettive né morali cui far riferimento e incapace di sfruttare le proprie potenzialità se non decidendo ingenuamente di dedicarsi al furto di una macchina da scrivere che poi non riesce a rivendere (viene poi scoperto non nell’atto del furto ma in quello della restituzione). Tutto sullo schermo appare genuino: situazioni, caratteri, dialoghi, luoghi. La Parigi di Truffaut non ha nulla a che fare con quella delle cartoline ma è autentica, vissuta, divertente ma anche torbida, e tutto questo si evince già dalle inquadrature della Torre Eiffel sui titoli di testa, che sono fatte da vicino e dal basso, proprio come se a guardarla fosse un bambino. Truffaut non giudica né giustifica ma semplicemente racconta, senza nessuno stratagemma filmico o romanzesco, adattando il mezzo cinematografico alle sue esigenze espressive piuttosto che alle consuetudini ma senza il compiacimento di infrangere le sue regole che macchia altre pellicole come Fino all’Ultimo Respiro. Non a caso I 400 Colpi è un classico in tutti i corsi di cinematografia.
Interpreti: Viggo Mortensen, George MacKay, Frank Langella
Ben e Claire hanno deciso di crescere i loro sei figli in modo non convenzionale, vivendo nei boschi e sottoponendoli ad una rigidissima disciplina che comprende la caccia, l’allenamento fisico estremo, la filosofia, le lingue straniere e molte altre cose. Alla morte di Claire, che dopo l’ultimo parto soffriva di una depressione tale da indurla al suicidio, Ben e i ragazzi dovranno affrontare il mondo reale per presenziare al funerale.
Qualche giorno fa ho deciso di dare un’occhiata al catalogo di RaiPlay e mi sono imbattuta in questo film, di cui non mi sarei mai ricordata se non fosse per il titolo fumettistico e la presenza di Viggo Mortensen. Ma soprattutto, sotto la locandina campeggiava la scritta “disponibile solo per un giorno”, e così, come una qualsiasi vittima delle classiche televendite con le strepitose offerte “solo per oggi”, mi sono lasciata convincere a vederlo quella sera stessa. Innanzitutto Captain Fantastic non ha proprio niente a che vedere con i noti supereroi con maschera e mantello, anzi, è un film tecnicamente e visivamente semplice che però invita a riflettere su argomenti molto controversi e complessi. Ben decide di crescere i suoi figli fuori da ogni schema e convenzione sociale, con il risultato di formare sei ragazzi svegli e intelligenti, dotati di senso critico e istinto di sopravvivenza, capaci di pescare e di citare Platone, di scalare pareti rocciose e di parlare l’esperanto, ma del tutto impreparati ad affrontare il mondo civilizzato in tutti i suoi aspetti. Si potrebbe discutere per ore sull’impatto che ha la società sull’individuo e sulle sue capacità, ma fin dall’inizio del film è chiaro che non c’è che una possibilità per sopravvivere davvero: il compromesso. E se questo è basato non sull’arrendevolezza ma sul desiderio di espandere le proprie esperienze, soprattutto affettive ed emotive, allora non vi è nulla di vile, anzi. Capitan Fantastic è un personaggio davvero complesso e viscerale, molto ben rappresentato da Viggo Mortensen, che riesce ad apparire a tratti come un supereroe e a tratti come un mostro che maltratta i figli. Il film si lascia guardare, gli attori, anche i giovanissimi, sono bravi, l’idea è intrigante, ma l’inevitabile finale non giunge come una sorpresa. La totale estraneità della famiglia di Ben ad ogni convenzione sociale rende difficile l’empatia con i protagonisti ma spinge alla riflessione e all’autoanalisi, cosa che per un film non è mai negativa.
Oggi la giornata è iniziata con una straordinaria sorpresa: Sam Simon, del blog che seguo assiduamente Vengono fuori dalle fottute pareti ha nominato Cinemuffin per il Liebster Award 2020! Io e Sam abbiamo avuto modo di scambiare pareri cinefili tramite commenti e ci siamo trovati fino ad ora sempre d’accordo. Grazie mille Sam per aver pensato a me! Non me lo sarei mai aspettato, Cinemuffin è ancora molto giovane, direi che sta ancora finendo di lievitare… È un privilegio essere stata apprezzata da un veterano come te!
Ora, dopo aver ringraziato chi mi ha nominato e fornito il suo link, mi appresto ad espletare le altre fasi previste dalla procedura del Liebster Award.
Innanzitutto devo rispondere alle 11 domande che Sam mi ha posto.
Prodotti artistici o prodotti industriali? Arte di consumo o Arte pura? Dicotomie impossibili: ti senti di prendere parte in questa diatriba o prendi quello che passa…?
Spesso sono stata delusa da alcuni cosiddetti prodotti artistici, mentre certi prodotti industriali mi hanno divertita e a volte anche appassionata. Sono dell’idea che spesso i film di genere, come la fantascienza o i western, che vengono a torto considerati inferiori ai film d’autore, siano il veicolo migliore per trasmettere messaggi importanti in modo efficace.
Ti senti più un tipo nordico o mediterraneo?
Nordico. Britannico, per la precisione: l’anglofilia è una mia caratteristica ancestrale.
Preferisci le cose che si sentono o le cose che si vedono?
Mi è stato detto che per come mi esprimo sono una persona visiva, e credo che dipenda in gran parte dalla mia antichissima passione per il cinema.
Ti inondi nei social? Ti mantieni distante? Li rifiuti?
Sono entrata solo di recente in Facebook, dopo anni di totale assenza, e non posso dire che mi piaccia quello che vedo: troppe polemiche, lamentele e accuse. Al contrario traggo grandissime soddisfazioni dai blog, sia dal mio che da quelli che seguo.
Hai un criterio di organizzazione del blog?
Cinemuffin è giovanissimo come blog, ma sto cercando di pubblicare con regolarità post di diverse categorie alternate, sperando di non annoiare: articoli, recensioni, aneddoti.
Programmi molto i tuoi post o “pubblichi” a istinto quando capita?
Di solito programmo tutto con giorni di anticipo, ma capita di avere “l’urgenza” di un articolo che proprio non può aspettare… come questo!
Come ti approcci alle tematiche femministe?
Credo che il #girlpower e il #metoo cinematograficamente abbiano dato vita solamente a fiacchi e sterili remake al femminile di grandi successi, che hanno trasmesso un messaggio sbagliato: le donne possono solo rifare (male) tutto quello che già gli uomini hanno fatto (bene). Preferirei vedere invece qualche novità, qualcosa di originale e di genuinamente bello, e sono sicurissima che a Hollywood (ma non solo) ci siano attrici, registe, produttrici e sceneggiatrici in grado di farlo.
Rapporto con la TV: la guardi? e se sì cosa guardi?
Ormai non la guardo quasi più, quando scopri la comodità dello streaming e dell’on-demand che ti permettono di scegliere cosa vedere, quando, in che lingua e senza pubblicità, è davvero difficile tornare indietro… però mi fermerò sempre davanti alla tv per Gerry Scotti o per le partite di coppa dell’Inter.
A livello musicale sei da oggetto (compri CD, vinili ecc.) o vivi bene anche i file?
Di solito canto io…
Ti consideri un eterno bambino o preferisci essere adulto?
Pensavo che sposarmi e mettere al mondo dei figli mi avrebbe fatta sentire adulta, ma non è proprio così… ancora rido e piango davanti ai cartoni animati e indosso costumi da personaggi Disney (non solo a carnevale).
Sei ordinato o disordinato? Riesci a spiegare la tua posizione in proposito?
Una mamma casalinga e blogger se non è ordinata è perduta!
In secondo luogo devo elaborare una mia personale lista di 11 domande da porre agli amici blogger che andrò a mia volta a nominare, e che, in caso decidano di accettare, dovranno seguire le stesse direttive. Ecco le mie domande:
Ti capita mai di vedere un film e pensare “questo proprio non lo posso recensire!”?
Ti è mai capitato di cambiare completamente opinione su un film che avevi già visto?
Ti è mai capitato di scrivere un articolo all’ultimo momento, magari facendone slittare uno già programmato, perchè sentivi l’urgenza di pubblicarlo immediatamente?
Quando ti chiedono “qual è il tuo film preferito” di solito cosa rispondi?
Alla domanda precedente dai sempre la stessa risposta?
C’è una canzone di un film che canti in auto o sotto la doccia o per addormentare i bambini?
Quando rileggi quello che hai scritto in genere ti piace o invece vorresti cancellare tutto?
Come hai scelto il nome del tuo blog?
Desideri che i tuoi amici e parenti seguano il tuo blog o preferisci tenerli all’oscuro?
Scegli i film o le serie tv da guardare in funzione del blog oppure scrivi di quello che ti capita sotto mano?
Se potessi far leggere il tuo blog a una qualunque personalità del mondo del cinema o delle serie tv, chi sceglieresti?
Infine, escludendo quelli che Simon ha già nominato, ecco la lista dei blogger che intendo nominare:
Interpreti: Brendan Fraser, Leslie Mann, Thomas Haden Church, Abraham Benrubi, Holland Taylor
Dove trovarlo: Disney Plus
George è cresciuto in Africa tra scimmie ed elefanti senza mai incontrare un essere umano, fino al giorno in cui una spedizione scientifica arriva nella sua giungla. George salva da un leone affamato la bella ereditiera Ursula e se ne innamora, decidendo di lasciare per la prima volta la sua casa sull’albero per seguire la donna amata e affrontare un nuovo tipo di giungla: New York.
Simpatica parodia del personaggio di Tarzan, George è aitante e muscoloso ma anche goffo e imbranato, con il sorriso smagliante e la faccia da bravo ragazzo di Brendan Fraser. Il film è pensato per le famiglie, con gag a portata di bambino (come i numerosi scontri di George con gli alberi) ma anche qualche battuta divertente rivolta agli adulti (come gli alterchi dei bracconieri con la voce narrante fuori campo), e nel complesso si lascia vedere senza intoppi anche se non è memorabile. Ha avuto comunque un successo sufficiente ad assicurargli un seguito, George of the Jungle 2 (cui Brendan Fraser però non ha preso parte). In ogni caso, se le voci che annunciano un live action del classico Disney Tarzan (voci per ora non confermate) si riveleranno fondate, io credo che preferirò evitarlo e rivedermi piuttosto questa pellicola vintage gustandomi magari in lingua originale la performance del Monty Python John Cleese che presta la voce a Ape, lo scimmione che non solo parla ma dipinge e gioca a scacchi.
Alla fine di Toy Story 3 avevamo visto Andy partire per il college dopo aver affidato tutti i suoi vecchi giocattoli, compreso il suo favorito, lo sceriffo Woody, alla piccola Bonnie, una bimba molto timida ma anche affettuosa. Durante il suo primo giorno di asilo Bonnie costruisce, con materiali trovati nella spazzatura, un piccolo giocattolo di nome Forky, che prende vita proprio come gli altri e brama di tornare nell’immondizia, l’unico posto in cui si sente al sicuro. Quando Forky scappa Woody lo insegue per riportarlo da Bonnie, desideroso di rendersi utile visto che ormai la bimba gioca con lui sempre meno. Mentre cerca il piccolo amico, Woody si imbatte in una vecchia conoscenza: la pastorella Bo Peep.
Sono passati ormai quindici anni da quando la Pixar ha rivoluzionato per sempre il mondo dell’animazione con il primo lungometraggio in computer grafica, Toy Story, che ha avuto un grandioso e meritatissimo successo e due seguiti, l’altrettanto bello Toy Story 2 e il più drammatico Toy Story 3. Questo quarto episodio, che poteva sembrare solamente un’operazione di marketing della Disney (che ha acquisito la Pixar nel 2006), invece non sfigura affatto in confronto ai precedenti, grazie ad una storia intelligente che prosegue con naturalezza lo sviluppo narrativo dei personaggi. Sebbene il protagonista sia il cowboy Woody, che deve affrontare la sua paura di essere messo da parte da Bonnie, il personaggio più di spicco è Bo Peep, dolce e indifesa pastorella innamorata di Woody nei primi due film ma completamente assente nel terzo perchè data via da Molly, la sorellina di Andy. Scopriamo che negli anni Bo ha imparato a cavarsela da sola e stretto molte nuove amicizie, senza mai sentire il bisogno di un nuovo bambino e trovando la sua indipendenza. Ma il suo amore e la sua ammirazione per Woody e la sua dedizione a Bonnie la rendono un personaggio a tutto tondo, tosta ma amorevole e disposta al sacrificio per aiutare gli amici in difficoltà. Menzione speciale per Buzz che, inizialmente perso senza Woody, impara a dare ascolto alla sua “voce interiore”. Avventuroso, divertente, profondo e commovente, Toy Story 4 è un seguito decisamente splendido, tecnicamente perfetto, adatto a tutta la famiglia. Angelo Maggi regala a Woody una nuova ottima voce, anche se per chi come è cresciuto con questi personaggi è difficile non sentire la mancanza di Fabrizio Frizzi, che aveva prestato la voce al pupazzo cowboy nei tre film precedenti. Simpaticissimo come sempre Luca Laurenti nei panni del bislacco Forky. Occhio all’apparizione speciale di Tin Toy, il giocattolo protagonista di uno dei primissimi corti Pixar nel 1988.