Trovo che sia meraviglioso il modo in cui le nostre passioni (nel mio caso, inutile dirlo, il cinema) possano avvicinare tra loro persone completamente diverse, che magari non si sarebbero mai neppure rivolte la parola se non si fossero trovate sedute vicine in una sala cinematografica o in coda per farsi firmare un autografo. Io mi ritengo una persona molto fortunata perchè sono riuscita nel corso degli anni a mantenere molte delle amicizie a cui tenevo di più. Tra queste una mia cara amica conosciuta a soli quindici anni sui banchi di scuola cui mi riferirò col suo titolo nobiliare “Contessa Arruffapopoli“. È davvero difficile immaginare due ragazze più diverse di noi per idee politiche, modo di vestire, scelta degli hobby, degli amici e dei passatempi (non sempre dei ragazzi, tuttavia, e questo portò all’unico e solo screzio tra di noi): ma proprio per questo, in questi anni, abbiamo avuto modo di arricchirci a vicenda di esperienze che, da sole, di certo non avremmo mai fatto, e di allargare l’una gli orizzonti dell’altra. Alla base di tutto, certo, abbiamo sempre avuto in comune l’amore per le famigerate materie umanistiche (che ci portò ad attraversare assieme prima il liceo classico e poi la facoltà di lettere), letteratura, teatro, e anche cinema. Fu così che decidemmo di prenderci qualche giorno tutto per noi e partecipare al FEFF (Far East Film Festival) di Udine insieme. Prenotammo un piccolo B&B e partimmo, entusiaste e curiose. Eravamo partite con un giorno di anticipo per avere il tempo di visitare la città, ma Udine si rivelò una delusione, una cittadina piccola e con poche attrattive, giusto appena animata da alcune bancarelle a tema orientale in occasione del festival. Avremmo dovuto sospettarlo quando, arrivando dalla stazione verso il centro, ci imbattemmo in una gigantesca scritta su un muro: SOLIT – UDINE. Insomma, più chiaro di così… Poi iniziò il festival, e per quattro giorni non ci fu più tempo per niente altro, a malapena per mangiare. Le proiezioni iniziavano alle dieci del mattino e continuavano senza soluzione di continuità (giusto un’oretta scarsa per il pranzo) fino a sera. Fu un’esperienza immersiva stupenda, di quelle che poi, una volta messa su casa e famiglia, diventano un’utopia. Vedemmo film belli e brutti, divertenti e tristi, violenti e romantici… si passava da un genere all’altro, da un paese orientale all’altro, senza respiro. Ricordo che, mentre passavamo come al solito di fretta da una sala all’altra, dissi alla Contessa Arruffapopoli: “Finora il film che mi è piaciuto di più è stato quel drammone vietnamita… quello che abbiamo visto l’altro ieri…”. La mia amica mi guardò sorniona e mi corresse: “Guarda che lo abbiamo visto stamattina!”. In contesti del genere il tempo si dilata, e si finisce per perderne completamente la cognizione. Ritornammo a casa stordite, un po’ confuse, ma sicuramente felici e soddisfatte dell’esperienza. Ritentammo l’anno successivo, ma lo sciopero dei treni ce lo impedì. Così quei quattro giorni restano unici e memorabili, come esperienza culturale senza dubbio ma anche come tassello di una grande e duratura amicizia. Alla faccia della solit-Udine.
In quest’epoca d’oro per le cosiddette “couch potatoes”, le “patate da divano”, coloro che passano volentieri l’intera giornata stesi sul divano a guardare la tv e mangiare patatine, in cui le proliferanti piattaforme streaming hanno messo a disposizione di tutti una scelta fino a qualche anno fa inimmaginabile di film, cartoni animati e serie tv, sembra impossibile che ci siano ancora prodotti introvabili. Non mi riferisco a quei vecchi film che erano introvabili già da decenni (l’indefesso inseguimento di Papà Verdurin dei film di Robert Mulligan temo non avrà mai fine), ma alle serie tv del passato recente che, incredibilmente, non sono disponibili su nessuna delle piattaforme più diffuse, nonostante il grandissimo successo di pubblico riscosso.
Una di queste è la serie Malcolm, andata in onda negli Stati Uniti dal 2000 al 2006 e da noi (con il classico ritardo) dal 2004 al 2008 su Italia 1. Ci sono diversi motivi per ricordare questa serie, in cui ogni puntata si apriva con la simpatica canzone Boss of Me dei They Might be Giants. La prima cosa a colpire quando la si guarda per la prima volta è il fatto che il protagonista, il giovane Malcolm, spesso guarda in macchina e si rivolge direttamente allo spettatore per commentare ciò che gli sta accadendo. Oggi questa rottura della quarta parete nelle serie tv ci sembra normale perchè l’abbiamo vista in moltissime serie recenti (Ned: Scuola di Sopravvivenza ma soprattutto l’acclamatissima Modern Family, prima che nel film Enola Holmes, solo per citarne alcuni), ma tutto è iniziato con Malcolm. Ricordo anzi che all’epoca mi faceva un po’ impressione, all’inizio, vedere il faccione di Frankie Muniz (l’attore che interpreta il protagonista) inquadrato in primo piano che commentava la sua vita, spesso in toni lamentosi.
Una volta superato il primo shock, però, si scopre una serie molto ben fatta e soprattutto divertentissima, che infatti ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti. Il titolo originale della serie è Malcolm in the Middle, cioè “Malcolm nel mezzo” in riferimento al fatto che il protagonista, alle prese con i classici problemi adolescenziali, sia il figlio di mezzo in una famiglia con quattro figli maschi, di cui il maggiore, Francis, viene presto mandato all’accademia militare nel tentativo di domare il suo spirito ribelle e combinaguai. Nel corso delle stagioni la famiglia Wilkerson crescerà con la nascita di un quinto maschietto, Jamie, che già in tenerissima età darà del filo da torcere a genitori e fratelli. Tutti i personaggi della serie, anche se non sono molto realistici, sono ben caratterizzati. Ho già accennato alla propensione di Francis per i guai e i colpi di testa. Reese invece è un sempliciotto svogliato e con atteggiamenti da bullo. Malcolm, con le sue mille manie, insicurezze e idiosincrasie, cerca di barcamenarsi tra la sua stramba famiglia e il mondo complicato dell’adolescenza. Dewey, il piccolino di casa fino alla nascita di Jamie, è incredibilmente intelligente per la sua età ma viene sempre ignorato dagli altri membri della sua famiglia, troppo impegnati in discussioni e bisticci. I genitori di Malcolm sono una coppia esplosiva con dinamiche credibili (anche se portate spesso all’eccesso, come quasi tutto in questa serie) ed esilaranti. La madre Lois è una maniaca del controllo che si scalda facilmente, mentre il marito Hal cerca di trovare un equilibrio tra i suoi isterismi e le esigenze della prole. Hal è interpretato da un attore allora poco conosciuto ma che oggi è famosissimo: Bryan Cranston, attore salito alla ribalta con la serie Breaking Bad che, in Malcolm, può esibire tutto il suo grande talento comico (e anche canoro in un paio di occasioni). Bryan Cranston è sicuramente il membro del cast che ha avuto la carriera più sfolgorante, mentre Frankie Muniz, dopo un paio di titoli per il giovane pubblico come agente Cody Banks, è sparito dai radar, salvo comparire in un paio di film della serie Sharknado. Più ci penso e più mi sembra strano che una serie che ha cambiato le regole della serialità, che è stata più volte ripresa e copiata (la serie The Middle, fin dal titolo, ne è la copia carbone) e che ha un cast così talentuoso non venga replicata a ciclo continuo in televisione e non sia in primo piano su almeno una delle principali piattaforme streaming. Mi auguro che gli omaggi diretti a Malcolm visti recentemente nell’unica parte godibile della serie Marvel Wandavision (cioè quella girata in stile sitcom) possano smuovere un po’ le cose e riportare alla luce questa serie esilarante.
Interpreti: Chris Hemsworth, Tessa Thompson, Liam Neeson, Emma Thompson, Rebecca Ferguson
Dove trovarlo: Netflix
Come tutti, nel 1997 mi sono innamorata del film Men in Black di Barry Sonnenfeld che miscelava perfettamente azione e umorismo dando vita a un mondo molto ben pensato in cui gli alieni non solo esistono, ma vivono in mezzo a noi sulla Terra sotto mentite spoglie; esistono però anche altri alieni meno amichevoli, con i quali, quando la diplomazia fallisce, è necessario imbracciare le armi. Tutti questi complicati rapporti intergalattici vengono gestiti sulla Terra da un’organizzazione segretissima, i Men in Black, che gestiscono le varie specie aliene e proteggono i terrestri. E li proteggono, naturalmente, tenendoli all’oscuro di tutto. Questo bellissimo film non solo ha avuto un grande successo, ma è proprio entrato nell’immaginario collettivo: oggi tutti sanno cosa significa “sparaflashare”, sanno riconoscere gli uomini vestiti di nero con occhiali da sole e sanno che le vere notizie si trovano nei giornaletti scandalistici. Inoltre, a tutti noi è capitato di pensare che se l’insegnante di matematica delle media fosse stato un alieno si sarebbero spiegate moltissime cose, e che se il nostro vicino di casa Luciano si comporta in modo strano probabilmente è perché un alieno ha preso il suo posto e indossato un Luciano-abito. Naturalmente un film che ottiene un tale successo non può che generare dei seguiti. Nel 2002 lo stesso Sonnenfeld dirige di nuovo la grandiosa coppia Will Smith e Tommy Lee Jones in Men in Black 2, che però non ha neanche lontanamente l’acume e lo spirito dell’originale. Il terzo capitolo, diretto ancora da Sonnenfeld nel 2012, devo averlo visto ma non ne conservo alcun ricordo, segno che forse non era così fantastico. Ma questo non impedisce alla Sony di mettere in cantiere uno spin-off, ed ecco come nasce questo quarto capitolo della saga degli uomini in nero, Men In Black: International, che chiarisce come i Men in Black non siano un’organizzazione prettamente statunitense ma abbiano invece sedi e agenti in tutto il mondo.
La nostra storia inizia a New York, dove la piccola Molly si ritrova un piccolo alieno variopinto in camera e lo aiuta a scappare; subito dopo assiste alla cancellazione della memoria dei suoi genitori da parte di due uomini vestiti di nero. Da quel momento l’obiettivo della vita di Molly (Tessa Thompson) diventa scoprire la verità ed entrare a far parte di quella misteriosa organizzazione, di cui nessuno sa nulla, ma che lei sa esiste davvero. Grazie alla sua determinazione Molly riesce a individuare la sede dei Men in Black e a introdurvisi: colpita dalla sua perseveranza e dal suo entusiasmo, l’agente O (Emma Thompson) decide di darle una possibilità e la manda nella sede di Londra come agente in prova. Qui Molly, ora Agente M, incontra il capo, High T (Liam Neeson) e l’affascinante agente H (Chris Hemsworth), il più abile ma anche il più indisciplinato della sua sezione. Molly convince H a portarla con sé nella sua missione successiva, convinta di poter dimostrare di avere tutte le qualità per diventare un agente a tutti gli effetti. Il compito sembra molto semplice: far divertire Vungus, un giovane alieno di stirpe reale grande amico di H. Ma qualcosa va storto, due alieni sconosciuti e molto potenti li attaccano: mentre H combatte, Vungus, ferito a morte, affida a M un oggetto misterioso e la avverte che c’è una spia nei Men in Black. Ora Molly dovrà capire che sono gli assassini di Vungus e perché lo hanno ucciso, cosa sia l’oggetto misterioso e, soprattutto, di chi si può fidare all’interno dei Men in Black.
Il regista F. Gary Gray, che nasce come autore di videoclip, ha già mostrato di trovarsi a suo agio nei film d’azione spettacolari (The Fate of the Furious) ma anche in quelli più ironici (Be Cool), e infatti non si può certo dire che il film manchi di inseguimenti adrenalinici; il comparto effetti speciali fa un ottimo lavoro a tutti i livelli, dalle creature aliene (alcune non molto originali ma comunque ben fatte) agli effetti bullet time (più che altro si usa il rallentatore per godersi di più la camminata sciolta di Chris Hemsworth, ma non mi lamento).
Purtroppo però la trama e i personaggi non sono altrettanto curati. Per quanto riguarda la storia, onestamente ci sto pensando da un paio di giorni e ancora non ho compreso come mai gli Hive (alieni cattivi) non abbiano distrutto la Terra la prima volta e per quale motivo abbiano deciso di piazzare invece una loro spia. Se avevano bisogno di impadronirsi dell’arma, come mai gli altri alieni invece la volevano per difendersi da loro? Significa che gli Hive erano già adeguatamente armati…E perchè Vungus porta l’arma proprio sulla Terra se sa che c’è una spia, mettendo così l’intero pianeta in pericolo? Insomma, forse io sono lenta di comprendonio, ma in questa scaramuccia intergalattica qualcosa non torna (e si capisce da subito chi sia la spia, comunque). Ma tutto questo guazzabuglio spaziale si potrebbe perdonare, se solo i due protagonisti funzionassero, invece sono due personaggi pensati male che quindi interagiscono malamente tra di loro. H sembra, a detta di tutti, essere cambiato dopo la battaglia contro gli Hive di alcuni anni prima: ma cambiato come? Come era prima? E cambiato perché? Tutto questo, anche alla luce di ciò che si scopre su quello scontro, non ha senso. Molly invece ha dedicato la sua vita a studiare lo spazio e le forme di vita aliene, tanto da possedere strumentazione sofisticatissima per individuare gli extraterrestri in arrivo sul pianeta. Eppure, quando entra finalmente nei Men in Black, cosa fa? Mente ad H, fingendo di sapere cose che non sa, per poter andare in missione con lui. Perché? Non mi sembra che attaccarsi alla gamba dell’agente più fico sia un modo dignitoso di fare carriera e dimostrare il proprio valore… Forse si poteva inventare un diverso stratagemma per portarli a cooperare. Poi si capisce che tra i due nasce un sentimento, e anche questo appare forzato. Certo parliamo di due attori, Chris Hemsworth e Tessa Thompson, simpatici e attraenti, che come già si era visto in Thor: Ragnarok insieme funzionano piuttosto bene, ma questo non basta a reggere un intero film che traballa per sceneggiatura, dialoghi e personaggi secondari. Ne escono naturalmente a testa alta Liam Neeson e soprattutto la meravigliosa Emma Thompson, sagace e stilosa al punto giusto. Alla fine del film, però, quello che resta è un gran desiderio di rivedere il primo, inossidabile Men in Black e sparaflasharsi per dimenticare tutti i seguiti (peccato per Chris Hemsworth senza camicia però).
Voto: 3 Muffin (di cui uno è per Chris Hemsworth in pantaloni rosa)
Alcuni visitatori di Cinemuffin mi hanno giustamente fatto notare che il blog non era facile da navigare, non esistendo un indice di tutti i titoli trattati. Visto che ormai il blog è attivo da più di un anno e in effetti il numero di titoli di cui ho parlato (o poetato) inzia ad essere importante, mi sono presa un po’ di tempo per creare una pagina indice che, se tutto va come previsto, comparirà sulla barra superiore accanto alle altre pagine del menù. Vi potrete trovare, in ordine alfabetico, tutti i titoli affrontati divisi in film, serie tv, e cortometraggi, con un’ultima sezione speciale dedicata ai film di 007. Scorrete l’indice per cercare il titolo che vi interessa, scovare una recensione che vi eravate persi o rileggere un vecchio articolo.
Dopo il grande successo della prima stagione, Netflix ha prodotto una nuova serie di Love, Death and Robots, che come la prima raccoglie cortometraggi animati molto diversi tra loro per stile dell’animazione, trama e tono, accomunati da uno o più degli elementi che danno il titolo alla serie: Amore, Morte e Robots. I diciotto episodi della prima stagione, usciti nel 2019, avevano conquistato il pubblico per la loro varietà e la loro qualità generale molto elevata; inoltre la formula di radunare cortometraggi molto diversi per origine, produzione e focus si era rivelata vincente, tanto da replicarla in tutto e per tutto, tranne che nel numero di episodi, che questa volta sono solo 8. Tuttavia questa nuova stagione non convince quanto la precedente. Il difetto non è certo nella qualità dell’animazione, che in alcuni episodi è davvero straordinaria, tanto da far dimenticare che quello che si sta guardando è realizzato al computer e non ripreso dal vivo. In altri casi invece si è puntato su stili di animazione più particolari, cui è un po’ difficile abituarsi all’inizio ma che sono comunque segno di una certa dose di creatività. Quello che non convince però sono le trame dei singoli episodi, che a volte partono da un buono spunto ma che impiegano appena quei pochi minuti di durata per sgonfiarsi e lasciare lo spettatore con un “Beh, e allora?” sulle labbra. Come nella prima serie, in tanta varietà ciascuno può trovare l’episodio più affine ai suoi gusti (a me per esempio, che amo molto i racconti che sanno unire acutezza ed ironia, sono piaciuti Servizio Clienti Automatico e quello su un’interpretazione molto originale della figura di Babbo Natale. Il sentimento generale però è che questi nuovi cortometraggi fossero un puro sfoggio di abilità tecnica ma non avessero molto da dire a livello di messaggio per lo spettatore e di espressione artistica.
Continuate a fare i bravi bambini…
Ben più efficace è stato il lungometraggio I Mitchell contro le Macchine, anch’esso disponibile su Netflix, che ha puntato sull’innovazione visiva unendo la classica animazione al computer con spunti grafici pop, raccontando la storia di una famiglia che risolve i suoi problemi di comunicazione mentre salva il mondo dalla rivolta dei robot. Qui una trama non particolarmente originale viene elevata dal tono ironico, dallo spessore realistico dei personaggi e dall’originalità formale (non solo lo stile dell’animazione ma anche le scelte di “montaggio” e la colonna sonora). Io mi sono innamorata dei due robot che, resisi conto di essere stati danneggiati e quindi di rischiare la distruzione, decidono (forse in un’interpretazione originale della terza legge della robotica di Asimov) di fingersi esseri umani, con risultati davvero esilaranti. Consiglio quindi a chi sia rimasto deluso da Love, Death and Robots di rifarsi gli occhi con I Mitchell contro le Macchine, anche se lo ha già visto: garantisco personalmente che il film rimane divertente anche dopo molteplici visioni ripetute.
Dopo la brutta delusione di Gli Irregolari di Baker Street avevo decisamente bisogno di qualcosa dai toni più scanzonati per ridare prestigio al detective più famoso del mondo, Sherlock Holmes. Da molto tempo aveva nella mia lista Netflix il film che faceva proprio al caso mio: Enola Holmes. Parafrasando il titolo del film comico con Gene Wilder del 1975, si potrebbe dire che Enola è “la sorella più furba di Sherlock Holmes”. Il personaggio della sorellina minore di Sherlock nasce dalla penna della scrittrice americana Nancy Springer, che la rende protagonista di una serie di gialli per ragazzi, I Misteri di Enola Holmes, pubblicati tra il 2006 e il 2010. Enola è la sorella di Sherlock e Mycroft, molto più giovane anagraficamente ma non per questo meno sveglia e determinata; infatti non si rassegna all’idea di diventare una donna elegante e educata destinata solo a sposare un uomo agiato, preferisce dedicarsi allo studio, lo sport e, all’occasione, risolvere crimini come il fratellone. Enola ha trascorso tutta la sua vita praticamente sola in casa con la madre Eudoria, interpretata da Helena Bonham Carter. Quando Eudoria scompare all’improvviso, i fratelli maggiori ricompaiono per prendersi cura di Enola: nella visione del primogenito, Mycroft, questo si traduce in una severa educazione collegiale. Sherlock sembra un tantino più empatico nei confronti di Enola e dei suoi bisogni, ma non osa mettersi in contrasto col fratello. Alla ragazza non resta dunque che prendere in mano il proprio destino, fuggendo e mettendosi alla ricerca della madre per conto proprio. Se si parte dalla consapevolezza del fatto che si tratta di un film pensato anche per un pubblico giovane (cui oggi ci si riferisce come young adult), Enola Holmes è un buon intrattenimento che mette in campo attori bravi e simpatici, come la protagonista Millie Bobby Brown, divenuta famosa come Undici nella serie Stranger Things, che qui si destreggia tra enigmi, crinoline e risse nei vicoli di Londra. Ho solamente trovato piuttosto fastidiosa la scelta del regista Harry Bradbeer di far rivolgere spesso Enola direttamente allo spettatore guardando in macchina; se era molto divertente quando lo faceva Amélie Poulain, qui invece finisce per rallentare una narrazione che già non è sempre scoppiettante nel ritmo (forse il film avrebbe beneficiato di un minutaggio leggermente ridotto).
Confesso però che il motivo di maggior interesse per me è incarnato da Henry Cavill, senza dubbio lo Sherlock Holmes più attraente di sempre (mentre il Dottor Watson più affascinante è senza dubbio la splendida Lucy Liu della serie Elementary). Curiosità: dopo l’uscita del film lo scorso anno la Conan Doyle Estate, che attualmente detiene i diritti delle opere dello scrittore, ha intentato causa a Netflix (casa produttrice di Enola Holmes) accusandola di raffigurare Sherlock Holmes come “un personaggio che prova emozioni”. La causa è stata però archiviata nel dicembre 2020, e Netflix sta già preparando un sequel: nuove emozioni anche per Sherlock, dunque. E più Henry Cavill per noi.
La visione di Enola Holmes mi ha molto rinfrancata, ma sentivo di aver bisogno di un altro pizzico di Sherlock per ritornare al pieno equilibrio. Ancora una volta, come l’autista Ambrogio che tirava fuori i cioccolatini dal cruscotto, è giunta in mio aiuto la piattaforma Netflix con un nuovo titolo più che calzante: Holmes & Watson.
Certo le premesse non erano delle migliori: del regista Etan Cohen a essere sinceri avevo solo brutti ricordi, sia nel ruolo di regista che di sceneggiatore (il terribile Men in Black 3 ma soprattutto il tremendo Tropic Thunder). Inoltre, a parte il suo ruolo di Mugatu nel primo Zoolander (del secondo preferisco non parlare), ho una grandissima antipatia anche per Will Ferrell, che qui interpreta Sherlock Holmes; sull’altro piatto della bilancia però c’era John C. Reilly, attore di grande talento (anche canoro come dimostra Chicago) e comico straordinario, nel ruolo di Watson.
E così mi sono tuffata nella visione di Holmes & Watson (sottotitolo italiano: Due De Menti al Servizio della Regina). Responso? Un grosso sacco di risate! Davvero, a parte alcune scene piuttosto di cattivo gusto ho trovato il film divertentissimo. Cohen, rifacendosi anche all’umorismo di Zucker/Abrahams/Zucker, si è divertito a prendere in giro tutti i clichè su Sherlock, compresi quelli stabiliti in tempi recenti da Guy Ritchie con i suoi due film, sostenuto da una favolosa accoppiata di protagonisti e scrivendo personalmente una buona sceneggiatura (il racconto iniziale del primo incontro tra Holmes e Watson è buffissimo). Ho anche amato ritrovare alcuni volti ben noti nel cast: Hugh Laurie nel ruolo di Mycroft, Ralph Fiennes in quello di Moriarty, il wrestler WWE Braun Strowman in un combattimento davvero singolare. Il momento musical poi mi ha particolarmente deliziato. Lo consiglio a tutti coloro che, sempre con rispetto per Sir Arthur Conan Doyle, desiderano farsi qualche bella risata su Sherlock Holmes e i suoi amici. Per ora, da Baker Street, è tutto!
Il mio rapporto con l’investigatore più famoso del mondo è sempre stato difficile ed ha avuto fasi alterne. Il primo approccio è stato indiretto ed è avvenuto tramite il lungometraggio Disney del 1986 Basil l’Investigatopo, in cui il topo protagonista era un investigatore che abitava proprio sotto al famoso numero 221b di Baker Street, dimora del celebre detective londinese nato nel 1887 dalla penna della scrittore Arthur Conan Doyle.
Nel cartone il personaggio di Basil è ricalcato su quello di Sherlock, soprattutto nella sua trasposizione cinematografica in cui è stato interpretato in ben quattordici film dall’attore inglese Basil Rathbone (da cui prende anche il nome). Nel film Disney compare tuttavia anche lo stesso Sherlock Holmes, o meglio, si vedono la sua ombra e quella del Dottor Watson mentre si preparano ad andare ad un concerto. “Questa musica è introspettiva e voglio essere introspettivo” dice Sherlock. “Ma Holmes” risponde Watson “Quella musica è terribilmente noiosa!”. Ho scoperto solo più tardi che, nella versione originale, la voce di Sherlock Holmes era proprio quella di Basil Rathbone (tratta da materiale d’archivio in quanto l’attore era morto nel 1967), mentre l’antagonista di Basil, il malvagio Professor Rattigan (ispirato alla nemesi letteraria di Sherlock, il Professor Moriarty), è doppiato da Vincent Price. Dunque, per molti anni, per me Sherlock Holmes non è stato altro che quell’ombra che dichiarava con serietà “voglio essere introspettivo”. Quando più tardi mi sono appassionata al genere letterario giallo è successo esclusivamente attraverso Agatha Christie, di cui in pochi anni ho letto la maggior parte dei romanzi e dei racconti. In virtù di questo mio grande amore per il genere, sembrava naturale che leggessi anche i libri del grande Conan Doyle e non avevo dubbi che mi sarei innamorata del personaggio di Holmes come lo ero di Miss Marple e soprattutto di Hercule Poirot. Decisi di iniziare dal principio e lessi il primo romanzo in cui compariva Sherlock Holmes, Lo Studio in Rosso, rimanendone cocentemente delusa. Infatti quello che amo di più dei gialli di Agatha Christie è che è sempre (con pochissime eccezioni) possibile indovinare il colpevole, o almeno tentare di farlo: il lettore svolge la sua indagine parallelamente all’investigatore, ha i suoi stessi elementi ed indizi e ha sempre la possibilità di giungere alla soluzione prima della conclusione. In Conan Doyle invece non è affatto così, Sherlock risolve il caso basandosi su indizi di cui il lettore non è a conoscenza e il colpevole a volte è un personaggio che non era mai comparso prima nella narrazione (come afferma con livore Lionel Twain/Truman Capote in Invito a Cena con Delitto).
Feci un altro tentativo con quello che forse è il romanzo più famoso, Il Mastino dei Baskerville, poi mi arresi: Sherlock Holmes non faceva per me; Conan Doyle, invece, lo rivalutai qualche anno dopo quando si rivelò inaspettatamente bravo nel raccontare di avventure e di dinosauri. Per molto tempo io e Sherlock Holmes abbiamo proceduto su strade separate, che però sono tornate inaspettatamente a incrociarsi quando Guy Ritchie ha girato il suo Sherlock Holmes, con Robert Downey Jr. nei panni dell’investigatore e Jude Law in quelli del fedele Watson.
Sembrava un’operazione alquanto azzardata, la sua, e invece mi ha davvero conquistata col suo mix di azione e ironia (chi è già stato su Cinemuffin ormai sa che Ritchie come regista mi piace molto proprio per questo). Se non ho gradito affatto la metamorfosi sancita da Kenneth Branagh per il suo Poirot, lo Sherlock di Ritchie invece mi è piaciuto molto più di quello dei libri di Conan Doyle e mi è piaciuto, appena meno del primo, anche il secondo film, Gioco di Ombre (la presenza del caro Stephen Fry nei panni di Mycroft, il fratello di Sherlock, probabilmente ha il suo peso). Similmente ho amato, almeno per le prime stagioni, la serie tv Sherlock, coni talentuosissimi Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che vince con onore la sfida di trasportare le avventure di Sherlock Holmes ai giorni nostri.
Dopo questa blasonata doppietta per un po’ mi sono distanziata da Sherlock, finché non mi sono imbattuta, poco tempo fa, in una serie tv targata Netflix, Gli Irregolari di Baker Street. In quel momento cercavo una visione leggera, e quelle otto puntate con investigatori in erba, interpretati da giovani attori sconosciuti che si trovano in qualche modo coinvolti nelle indagini di Sherlock Holmes e Watson sembrava una buona idea… E invece no! Non so da dove cominciare a elencare i difetti di questa serie, perché ce ne sono a tutti i livelli. L’idea di fondo, quella di una banda di ragazzini di strada di cui Sherlock Holmes si serve nelle proprie indagini ha le sue radici negli stessi romanzi di Conan Doyle ed è già stata portata in teatro e sullo schermo in passato. Qui però si è voluto esagerare. Inverosimiglianze storiche, per cui quattro ragazzini orfani possono vivere sereni nel centro di Londra in un ampio e comodo rifugio coperto con cucina e soppalco, o un servitore invita il suo nobile padroncino a soddisfare le sue voglie adolescenziali con un’altra ragazza di nobile famiglia anziché con una popolana. La decisione, sbagliata da ogni punto di vista, di far entrare in gioco il soprannaturale, gestito male sia dalla sceneggiatura che dagli effetti speciali e facendosi beffe della più celebre massima di Sherlock Holmes: “Eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”. Per far capire quanto brutta possa essere questa serie basta uno sguardo all’ambientazione dei sogni ricorrenti della protagonista, dotata di poteri psichici, che tanto ricorda la capanna dello Zio Tom.
La Capanna dello Zio Tom, anche quella in Baker Street
Il finale a sorpresa non sorprende proprio nessuno, i personaggi non hanno spessore e le relazioni tra loro sono traballanti, tanto da chiedersi cosa li spinga a fare le cose che fanno. E infine, il casting cosiddetto “daltonico”: il Dottor Watson è di colore, così come uno degli Irregolari (sarà un caso, ma è quello meno caratterizzato di tutti, come viene esplicitato nell’ultimo episodio, in cui è l’unico di cui non vediamo materializzarsi le paure più profonde perché, immagino, gli sceneggiatori non le avevano pensate), e le due ragazze protagoniste sono due sorelle, una con gli occhi azzurri e una con i tratti orientali. Naturalmente questa è una scelta che, anche se storicamente e biologicamente poco credibile, si potrebbe anche accettare; più difficile è abituarsi all’idea che Watson sia innamorato di Sherlock (anche questo dovrebbe essere un colpo di scena ma non serve certo essere Sherlock Holmes per capirlo già al primo episodio – anzi a dire il vero Sherlock è proprio l’unico a non capirlo). Insomma, una catastrofe: che Sherlock Holmes vi piaccia o meno, tenetevi alla larga da questa serie, di cui è già stata cancellata, fortunatamente, la seconda stagione. Dopo questa pessima esperienza, avevo bisogno di riabilitare il Detective di Baker Street ai miei occhi. E soprattutto avevo bisogno… di una bella risata!