Frankenstein

Anno: 2025

Regia: Guillermo del Toro

Interpreti: Oscar Isaac, Jacob Elordi, Mia Goth, Christoph Waltz, Charles Dance

Dove trovarlo: Netflix

Il piccolo Victor Frankenstein, sconvolto per il fatto che il padre, chirurgo di eccelsa fama, non sia riuscito a salvare la vita della madre, decide che diventerà a sua volta medico per cercare il segreto della vita eterna. Ma quando riesce nel suo intento, si rende tragicamente conto delle conseguenze delle sue azioni…

C’era bisogno di un altro film basato sul romanzo di Mary Shelley? Di un’altra rivisitazione della storia che ormai tutti conoscono? Prima di vedere il film non ne ero sicura, soprattutto perchè ho adorato il libro e non ho mai trovato al cinema una trasposizione degna del materiale originale di Mary Shelley. La versione che più mi ha colpito l’ho incontrata nella serie tv Penny Dreadful, ma quella si distaccava molto dalla storia raccontata nel romanzo.

Il regista Guillermo del Toro invece riesce ad essere allo stesso tempo molto fedele e assolutamente infedele, sia nei contenuti che nello spirito della sua opera.

Alcuni cambiamenti sono funzionali alla rappresentazione dei temi che più interessano il regista, mentre altri sono, almeno per me, più difficili da spiegare. Appare evidente che del Toro voglia descrivere, prima di tutto, il rapporto tra padre e figlio. Il piccolo Victor ha un legame ambivalente con il padre, che disprezza tanto lui quanto la madre per il loro carattere umorale e nervoso, oltre che per alcune caratteristiche fisiche (pallore, capelli corvini); Victor è molto legato alla madre, con cui ha molto in comune, mentre teme il padre (interpretato da Charles Dance), uomo freddo e insegnante severo. Quando la madre (interpretata da Mia Goth) muore dando alla luce il suo fratellino William, Victor incolpa il padre, chirurgo di grande fama, che non è stato in grado di salvarla. Oppure non ha voluto salvarla: anche questo sospetto si fa strada nella mente del giovane Victor, che ora è messo in ombra dal carattere aperto e solare del fratellino, opposto al suo, taciturno e contemplativo. Eppure, nonostante il rancore e la freddezza che prova per il padre, Victor finisce non solo per seguirne le orme diventando a sua volta medico chirurgo, ma per comportarsi esattamente come lui quando diventa, in qualche modo, padre. Quando riesce a dare la vita a una creatura composta di parti di cadaveri da lui assemblate, Victor assume verso di essa gli stessi atteggiamenti che aveva il padre nei suoi confronti: assenza di empatia, rigidità, delusione, amarezza, disprezzo. Victor desiderava una creatura dall’intelligenza viva e pronta, un altro se stesso; ma la sua creatura, come un neonato, apprende con lentezza, frustrando le sue aspettative e portandolo a maltrattare la creatura come suo padre faceva con lui. La scelta del regista di far interpretare a Mia Goth sia la madre che l’interesse amoroso di Victor, Elizabeth, è addirittura pleonastica, perchè è già chiaro allo spettatore che Victor soffre di un grave complesso di Edipo (amando la madre e disprezzando il padre) e che sia incapace di amore disinteressato. Ed ecco perchè Elizabeth, che all’inizio sembra attratta da lui (pur essendo la promessa sposa del fratello William) finisce col respingerlo, vedendo l’assenza di empatia e di compassione in lui. Quando la creatura, cui Victor insistentemente ordina di parlare, pronuncia infine il nome di Elizabeth, forma la propria condanna a morte: il creatore non può sopportare nè capire il rapporto di complicità e intesa che si sta creando tra la sua amata e suo “figlio”, come suo padre non poteva accettare il legame troppo stretto tra lui e sua madre. Victor si rivela essere uguale a suo padre e rifiuta la sua progenie, considerandola un fallimento. Quel fallimento però ha dei sentimenti, comprende e soffre, anela e patisce, consumato da sensazioni che non riesce a comprendere e bisognoso, come ogni creatura appena venuta al mondo, di aiuto e di amore.

Ho apprezzato la scelta di dividere la narrazione in due parti, il punto di vista di Victor prima e quello della creatura poi (così come è nel libro), perchè non può essere altrimenti: Victor abbandona la sua creatura, ritenendola morta, e il “mostro” fa esperienze per suo conto del mondo e dell’ambivalenza dell’essere umano, che può essere tanto amorevole quanto spietato. Quello che invece non ho capito è il personaggio del padre di Elizabeth, interpretato da Christoph Waltz, il quale finanzia le ricerche e gli esperimenti di Victor per una motivazione che non è difficile da intuire ma in definitiva non ha alcun peso sulla vicenda. Così come non ne ha il fatto che Elizabeth sia la promessa sposa del fratello e non dello stesso Victor, anche se questo si allinea con l’immagine che il regista ci offre della creatura, molto meno spietata di quella presentata nel libro, che uccide la moglie di Victor per punirlo del suo rifiuto di creare una campagna per il “mostro”.

A proposito di creazione, devo dire che la scena dell’assemblaggio del corpo della creatura è stata piuttosto difficile da guardare per via del suo crudo realismo e dell’indugiare su ogni raccapricciante dettaglio, ma una volta superata quella mi sono goduta in tutto e per tutto questa versione del racconto, non percependo la durata di 130 minuti.

Ho apprezzato molto le interpretazioni. I due veterani Charles Dance e Christoph Waltz non hanno bisogno di ricevere adulazioni da parte mia, mentre Oscar Isaac a mio giudizio ha dato vita al barone Frankenstein più antipatico, egocentrico e insopportabile di sempre. Mia Goth, con il suo aspetto ultraterreno, interpreta molto bene una donna che si sente fuori posto nel mondo (un po’ didascalico il fatto che lei stessa si descriva così in punto di morte in realtà) ma che è capace di grande sintonia con il suo prossimo, cosa di cui Victor non sembra essere capace (come non lo era suo padre). Infine non si può non menzionare Jacob Elordi, senza dubbio il “mostro” più affascinante e avvenente della storia dei cinema, ma che risulta convincente nella sua ricerca di risposte e di un suo posto nel mondo.

La creatura ha un aspetto molto meno ripugnante dei suoi predecessori cinematografici e televisivi, in linea con lo sguardo profondamente estetizzante di Guillermo del Toro, per cui ogni scenografia, ogni costume, ogni oggetto deve andare a comporre un quadro, un dipinto gotico affascinante e ridondante. Le crinoline fruscianti con cui Elizabeth passa a malapena attraverso le porte, gli archi, le candele, gli angeli, gli specchi: tutto rende lo sfondo impossibile da ignorare, anche se a volte il significato sembra passare in secondo piano rispetto al puro godimento estetico.

Però, se si accetta che il regista ama vedere il mondo attraverso questa lente goticizzante, se si sorvola su alcuni simboli smaccati (i guanti rossi indossati sempre da Victor, lo stesso colore degli abiti della madre) e su alcune modifiche narrativamente non impattanti, cosa rimane?

Non voglio svelare il finale, talmente differente da quello del romanzo (e da tutti quelli mostrati fino ad oggi al cinema) da potersi considerare sorprendente, ma dirò questo: in questo film ho visto la rappresentazione dell’essere umano, genitore o figlio, in ogni caso abitante di questo nostro pianeta, che si rende conto di aver commesso errori e di essere imperfetto e si ritrova a dover gestire questa consapevolezza.

A tutti noi è capitato, o capiterà, almeno una volta nella vita, di sentirsi sopraffatti dalla consapevolezza dei nostri difetti, delle nostre mancanze, dei nostri limiti. Come reagire? Questo film contiene la risposta di Guillermo del Toro a questa domanda. Non è giusta, non è sbagliata: è la sua risposta. E io l’ho apprezzata molto.

Quindi: c’era bisogno di un altro Frankenstein?

Posso solo dire: io non sapevo di averne bisogno, ma l’avevo.

Voto: 4 Muffin

Iron Mask – La Leggenda del Dragone

Titolo originale: Tayna pechati drakona

Anno: 2019

Regia: Oleg Stepchenko

Interpreti: Jason Flemyng, Jackie Chan, Arnold Schwarzenegger, Rutger Hauer, Charles Dance

Dove trovarlo: Prime Video

L’antica Cina prosperava grazie a un drago buono, che permetteva la crescita di una pianta di tè dalle foglie ricche di magiche proprietà curative. Ma tutta la ricchezza derivante dalla vendita del tè miracoloso tentò alcuni dei Maghi incaricati di proteggere il drago, che divennero malvagi e lo imprigionarono. La bellissima Principessa venne allontanata e imprigionata, e sembrava che nessuno potesse salvare il drago, il tè e la Cina dall’oscuro potere dei Maghi Neri; fino a che non arrivò dall’Europa un intraprendente cartografo…

In primo piano sulla locandina di questo film dal titolo banalissimo ci sono Jackie Chan E Arnold Schwarzenegger… Potrei anche chiudere qui la recensione no? Questi due nomi mi hanno attirata come una falena verso la lanterna, e l’arzigogolato prologo animato che spiega la storia del dragone, dei maghi e del tè non mi ha potuta scoraggiare. Jackie e Arnold non sono i protagonisti assoluti, ma le scene in cui combattono o si affrontano verbalmente sono da incorniciare per tutti i fan dell’uno e dell’altro. Il film, a raccontarne la trama, sembra un pasticcio senza appello (parliamo di dragoni, dello zar russo rinchiuso nella torre di Londra, di creaturine volanti e pirati cosacchi), e la sua forza di certo non è nella trama complicata e sovrabbondante di personaggi e situazioni, ma il risultato è un prodotto divertente, con belle scene d’azione e di combattimento e avventure simpatiche. L’uso massiccio della computer grafica ci ricorda in ogni momento che ci troviamo in una favola, dove è insensato pretendere realismo (e la recitazione in generale non aiuta a prendere le cose sul serio) e consequenzialità: la cosa giusta da fare è lasciarsi travolgere dalle scene assurde che si susseguono rapidamente senza dare il tempo di rifletterci troppo sopra. Le risate sono assicurate, il tono è scanzonato ma mai demenziale, i camei di star di grande livello come Rutger Hauer e Charles Dance arricchiscono ulteriormente l’accozzaglia di inseguimenti, scazzottate e confronti dal respiro epico ma dall’esito comico.

Consigliato per chi ama i film d’azione classici e quelli con combattimenti acrobatici, per chi ama il genere wuxia e in generale il cinema d’avventura orientale intriso di magia, il tutto ingentilito da un umorismo fanciullesco (mai volgare) e una violenza blandissima. Sconsigliato a tutti gli altri.

Voto: 3 Muffin

Mank

Anno: 2020

Regia: David Fincher

Interpreti: Gary Oldman, Lily Collins, Amanda Seyfried, Tom Burke, Tom Pelphrey, Charles Dance

Dove trovarlo: Netflix

Immobilizzato a causa di uno sfortunato incidente d’auto, lo sceneggiatore Herman Mankiewicz (Gary Oldman) viene recluso dal giovane regista esordiente Orson Welles (Tom Burke) in un tugurio a Victorville, California, affinché possa terminare nei tempi previsti di scrivere la sceneggiatura del film con cui Welles intende debuttare a Hollywood: Quarto Potere.

Ricordo un episodio di alcuni anni fa dello show di David Letterman in cui il conduttore e la sua immancabile spalla Paul Shaffer si stupivano del fatto che fossero già stati realizzati ben sei seguiti (oggi sono sette, con altri due in in cantiere) del film Fast & Furious. “Ai miei tempi” sentenziava Letterman “non si facevano i sequel, nemmeno dei film più belli. Vi immaginate un Citizen Kane 3: Rosebuddier!?!” (in italiano si potrebbe tradurre con “Quarto Potere 3: Sempre più Rosabella!”). Questa battuta mi è rimasta impressa perché sono sempre stata tra quelli che considerano quel film un grande capolavoro e in cuor mio ho sempre sperato di non vederne mai un seguito o un remake. Con Mank però siamo ben lontani dal territorio delle operazioni arbitrarie e meramente commerciali cui Hollywood ci ha abituati, e restiamo piuttosto nel campo dei grandi film. Fin dai titoli di testa di Mank infatti il regista David Fincher ci catapulta nel mondo dei classici di Hollywood con un bianco e nero pulito, una colonna sonora rispettosa, dialoghi incisivi e interpreti di classe. Il mitico Orson Welles (interpretato benissimo da Tom Burke), che in vita sua non è mai riuscito, nemmeno nei ruoli più marginali delle produzioni televisive più infime, a non troneggiare su tutto e tutti, questa volta rimane davvero sullo sfondo, per lasciare le luci della ribalta a un personaggio molto meno conosciuto ma che ha avuto una parte essenziale, come scopriamo qui, nella realizzazione del suo capolavoro indiscusso: Herman Mankiewicz. Soprannominato “Mank”, Herman era il fratello dell’influente produttore e regista Joseph Mankiewicz (interpretato da un bravo Tom Pelphrey); quando Welles lo scelse per scrivere la sceneggiatura di Quarto Potere Mank era conosciuto a Hollywood, oltre che per il suo carattere scorbutico e cinico (ma, come scopriremo, solo in apparenza) e il suo amore per i liquori forti, per aver prodotto i film dei fratelli Marx. Ma Welles, che aveva strappato alla RKO un contratto favoloso che gli garantiva piena libertà riguardo ad ogni aspetto del suo film, non si fece problemi ad ingaggiare Mank, salvo poi, a riprese ultimate, tentare di attribuirsi interamente il merito della sceneggiatura. Mank ottenne tuttavia di essere accreditato come co-autore e questo gli permise di ricevere nel 1942 l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale insieme a Orson Welles (che resterà l’unico riconoscimento dell’Academy per il regista, mentre Mank otterrà un’altra statuetta l’anno successivo per la sceneggiatura di L’Idolo delle Folle); ciononostante il regista nelle varie interviste continuò a definirsi l’unico autore di Quarto Potere, e ad attribuire al massimo a Mank il merito della prima stesura (che si intitolava American) o di aver avuto l’idea di “Rosebud”. Questo film racconta il periodo in cui Mank, costretto a letto da una gamba ingessata, detta ad una solerte segretaria (una splendida e incorruttibile Lily Collins) la prima stesura del copione di Quarto Potere. La sua opera non è ancora terminata che già iniziano ad arrivare da varie parti pressioni per il suo accantonamento: tutta Hollywood infatti sa che il personaggio di Kane è ispirato al magnate della stampa William Randolph Hearst (un fantastico Charles Dance, che grazie a un minimo trucco diventa molto somigliante al vero Hearst e con poche battute e la storia della scimmia ammaestrata domina con alta classe la scena), che come prevedibile non vede di buon occhio questo interesse per la sua persona e per quella della sua amante, l’attrice Marion Davies (una Amanda Seyfried mai così bella). Mank, che prima di diventare sceneggiatore e produttore era stato giornalista, conosceva di persona Hearst e la moglie, oltre a tutti gli altri personaggi influenti nella Hollywood dell’epoca, e probabilmente anche molti segreti che non dovevano essere rivelati. Le scene che potrebbero sembrare esagerate, come quella della presentazione di Louis B.Mayer (Arliss Howard) o quella della grande festa nella Casa Grande a San Simeon di Hearst (cui Welles si ispira per realizzare la Xanadu di Charles Foster Kane), sono in realtà del tutto credibili: la Hollywood degli anni d’oro non realizzava le sue grandiose messe in scena solo sotto i riflettori, ma anche nel retrobottega. Welles ha raccontato che le riprese di Quarto Potere furono accompagnate da diversi episodi sgradevoli, tra cui un tentativo di incastrare il regista con delle foto compromettenti: se il regista non fosse stato avvisato da un poliziotto, al suo rientro in albergo avrebbe trovato nella sua stanza un’adolescente svestita e dei fotografi pronti ad immortalare la scena. Dunque tutti i tentativi di dissuasione che vediamo nel film, anche ad opera del fratello Joseph, sono del tutto realistici. Immagino che Gary Oldman, come il suo personaggio, potrebbe arrivare a stringere la statuetta dorata dell’Academy grazie alla sua ottima interpretazione di un personaggio non facile, che riesce a strappare la simpatia del pubblico nonostante sia un ubriacone misantropo e bugiardo che spesso tratta malissimo moglie e amici e che vive in bilico tra l’odio per il sistema e l’attrazione irresistibile verso la scintillante Hollywood, in cui rimarrà fino alla sua morte. Mank è un film fatto bene sotto ogni punto di vista, che con continui flashback spiega chi fosse Herman Mankiewicz e come funzionassero gli ingranaggi della dorata Hollywood degli anni ‘30 e ‘40 mentre racconta una storia umana di amore/odio verso il sistema cui è difficile restare indifferenti. Adatto anche a chi non dovesse aver mai visto Quarto Potere (ma dopo aver visto Mank sono sicura che tutti saranno ansiosi di recuperarlo), imprescindibile per chi ama Welles, succulento per tutti coloro che amano conoscere i segreti dei grandi capolavori della storia del cinema. Dopo la visione consiglio una corsa in libreria alla ricerca di It’s All True, raccolta di intervista fatte a Orson Welles nel corso degli anni, che, anche se non chiarisce il rapporto conflittuale tra il regista e Mank, svela moltissimi ghiotti aneddoti sulla vita e il lavoro del grande regista. Auguro a Mank un grande successo, anche se non ha potuto uscire nelle sale ma è arrivato direttamente su Netflix: ma dopotutto anche Quarto Potere fu un mezzo fiasco al botteghino, mentre oggi è costantemente nei primi posti di ogni classifica di film più belli, oltre ad essere in tutti i manuali di cinema per le sue innovazioni nel campo delle inquadrature, del montaggio, dell’utilizzo dello spazio. Il film di David Fincher forse non farà la storia del cinema ma certamente merita di essere visto, è un’accurata macchina del tempo per rivivere i fasti di Hollywood senza tentativi arbitrari di mostrarla non per come era ma per come oggi vorremmo fosse stata (vedi la serie, sempre Netflix, Hollywood).

Voto: 4 Muffin