
Titolo: Hollywood (serie TV)
Anno: 2020
Creatori: Ryan Murphy, Ian Brennan
Cast: David Corenswet, Darren Criss, Laura Harrier, Joe Mantello, Dylan McDermott, Jake Picking, Jeremy Pope, Holland Taylor, Samara Weaving, Mira Sorvino, Patti Lupone, Jim Parsons, Queen Latifah
Dove trovarlo: Netflix (ancora senza il doppiaggio italiano a causa dei rallentamenti dovuti al Covid-19)
Fin dai suoi albori Hollywood ha fornito all’America i mezzi più potenti a disposizione per riscrivere la storia più o meno recente assolvendo ed incensando se stessa. Basti pensare alla pietra angolare Nascita di una Nazione di D. W. Griffith, del lontanissimo 1915, che celebra il razzismo del Ku Klux Klan; o a film di guerra come Berretti Verdi, in cui si tenta di utilizzare il carisma di John Wayne per sostenere l’intervento in Vietnam; o ancora all’accidentalmente escluso dal vastissimo catalogo di Disney Plus La Capanna dello Zio Tom, che racconta come fosse bello e divertente per gli schiavi neri vivere nelle piantagioni di cotone. In tempi più recenti tuttavia il revisionismo storico ha cambiato orientamento, ed abbiamo assistito per esempio all’assassinio di Hitler (non a caso in un cinematografo) prima che desse inizio alla seconda guerra mondiale in Bastardi Senza Gloria. Molte serie tv (Black Mirror, The Man in the High Castle) hanno seguito l’esempio di Tarantino e immaginato un diverso presente (o futuro) basato su un differente passato. Hollywood invece non ci racconta il presente o il futuro, ma un singolo evento del passato che avrebbe potuto cambiare completamente il corso dello sviluppo della cinematografia e della storia tout court, la realizzazione di un film, e lascia allo spettatore immaginare come avrebbe potuto essere il nostro presente se Meg fosse davvero stato girato alla fine degli anni ‘40. Probabilmente i movimenti #metoo e #girlpower non esisterebbero, perché non ce ne sarebbe bisogno. Hollywood mescola i fatti e i personaggi reali con quelli di fantasia, con l’effetto bizzarro di creare nella prima parte un mondo così realistico e triviale da risultare insopportabile e nel finale uno così infantilmente equo e bello da essere altrettanto difficile da accettare. La serie è dunque squilibrata e piena di difetti sostanziali, ma viene salvata in corner dalla bravura degli attori e dalla simpatia di alcuni personaggi. Tutti gli interpreti, più o meno conosciuti, sono davvero bravi, perciò mi soffermerò solo su quelli che mi hanno colpito di più. Jake Picking è efficace nei panni di un giovane e insicuro (soprattutto a causa della sua omosessualità) Rock Hudson, di cui viene raccontato con veridicità l’inizio della carriera sotto l’ala assai protettrice dell’agente Henry Willson (di cui parleremo ancora) ma di cui viene inventato il pubblico coming-out con fidanzato di colore. Parlo poi di quella che per me, per una serie di coincidenze, è diventata l’attrice del momento, Holland Taylor, che interpreta un personaggio di finzione ma del tutto realistico, una sorta di buona madrina per tutte le vittime del grande sistema degli studios hollywoodiani che rischia di ritrovarsi sola. Dico rischia perché alla fine di Hollywood (segue spoiler) ogni personaggio, nessuno escluso, riesce a realizzare il suo sogno, trovando l’amore, la gloria o la redenzione, nel più sfacciato degli happy ending, che però, devo essere sincera, mi ha dato una certa non giustificata soddisfazione emotiva. Parlando di questa serie è impossibile non citare l’attore Jim Parsons (per tutti lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory) che interpreta Henry Willson, un agente di spettacolo realmente esistito che si approfittava spesso dei suoi clienti, Rock Hudson compreso: la scena in cui Parsons si esibisce nella danza di Salomè tornerà nei miei incubi negli anni a venire. Ruolo marginale come minutaggio ma fondamentale per Queen Latifah nei panni di Hattie McDaniel, la prima attrice di colore a vincere un Academy Award per il ruolo di Mammy in Via col Vento del 1939 come miglior attrice non protagonista, che nonostante questo, proprio come racconta il suo personaggio, non ebbe il permesso di entrare nel salone della cerimonia: qui Hattie si prende virtualmente una rivincita sull’Academy. Anche tenendo conto di tutti i suoi difetti e della sua premessa non necessariamente condivisibile, che si basa su un film fittizio intitolato Meg per il quale, alla fine degli anni ‘40, tutti alla fine vincono un Oscar, compresa la protagonista di colore, il protagonista esordiente reduce dal conflitto mondiale, lo sceneggiatore di colore e omosessuale, l’attrice asiatica e il regista in parte filippino, credo sarà difficile per i cinefili astenersi dalla visione, se non altro per la curiosità di vedere insieme tanti bravi attori del grande e piccolo schermo e tanti personaggi della vecchia Hollywood. C’è però una mancanza secondo me imperdonabile, soprattutto considerando il fatto che Ian Brennan e Ryan Murphy sono stati anche gli autori di Glee e che sappiamo per certo che alcuni degli interpreti hanno grandi abilità canore (abbiamo apprezzato la voce d’angelo di Darren Criss proprio in Glee, quella di Queen Latifah in Chicago, e perchè no, Jim Parsons nel cult Soffice Kitty): nessun numero da musical hollywoodiano. Peccato.