Il Potere del Cane

Titolo originale: Power of the Dog

Anno: 2021

Regia: Jane Campion

Interpreti: Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee

Dove trovarlo: Netflix

Phil Burbank (Benedict Cumberbatch) è un cowboy esperto, cinico e misantropo, che non riesce ad accettare nella sua casa e nella sua vita la nuova moglie del fratello, Rose (Kirsten Dunst) e il figlio adoloscente di lei Peter (Kodi Smit-McPhee) e fa di tutto per impedire loro di sentirsi a casa. Le cose però cambiano quando Phil inizia ad affezionarsi al giovane Peter e  a stringere con lui un rapporto più profondo.

Questo film è stato candidato nel 2022 a ben 12 premi Oscar e al concorso la regista Jane Campion ha vinto la statuetta per la miglior regia. E infatti questo acclamatissimo film targato  Netflix ha nella sua veste formale il suo più grande punto di forza: ogni singolo fotogramma potrebbe diventare un dipinto da quanto è ben curato in ogni aspetto e anche per questo la visione è un piacere per gli occhi; la colonna sonora di Jonny Greenwood accompagna magistralmente questa sinfonia di colori e sfumature dei paesaggi del Montana, dove il film è stato girato. 

Il punto debole invece è la sceneggiatura, curata dalla stessa Campion (che per la sceneggiatura originale di Lezioni di Piano aveva vinto l’Oscar nel 1993) a partire dal romanzo di Thomas Savage, che ho avuto il piacere di leggere e da cui il film non si discosta mai troppo, se non, ed ecco il suo grande difetto, per voler rimarcare e sottolineare in modo ridondante e didascalico la sfaccettature del personaggio di Phil Burbank, il protagonista, che la regista stessa definisce “un grande personaggio della letteratura americana”.

Le contraddizioni di questo cowboy burbero e misantropo, per cui l’amore è un qualcosa di impossibile perché confinato al passato e al segreto, vengono strillate in faccia allo spettatore anziché essere suggerite con delicatezza come avviene nel romanzo. Dove Savage dipinge a piccole pennellate (con la sensibilità di chi ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza di essere un omosessuale in una società dominata dalla mascolinità rude e violenta) Jane Campion usa invece il rullo per comunicare al lettore il disagio e le contraddizioni del suo protagonista, arrivando ad una rappresentazione eccessivamente compiaciuta (il nascondiglio segreto zeppo di fotografie di corpi maschili) e didascalica (nel suo modo di inquadrare Benedict Cumberbatch incorniciato da elementi architettonici come John Ford faceva con il suo John Wayne, a marcare per contrasto la differenza tra quello che Phil sente di dover essere e ciò che invece prova) che rende più difficile l’empatia verso questo personaggio così complesso.

John Wayne in Sentieri Selvaggi e Benedict Cumberbatch in Power of the Dog

Anche il rapporto con il giovane Peter viene raccontato un po’ troppo frettolosamente nella sua evoluzione, togliendo allo spettatore la possibilità di seguirne mano a mano gli sviluppi e, forse, anche la sorpresa del finale, che nel libro arrivava davvero inaspettato e forse nel film no.

Sono comunque da lodare, oltre agli aspetti formali, tutte le interpretazioni: oltre a Benedict Cumberbatch che si destreggia tra sottrazione ed eccessi, anche Kirsten Dunst (sempre splendida) e Jesse Plemons danno il loro meglio nei panni di personaggi un po’ sacrificati dalla sceneggiatura che li lascia troppo sullo sfondo; il giovane Kodi Smit-McPhee recita molto bene il ruolo di Peter, l’unico oltre a Phil che abbia un po’ di spazio per dispiegarsi, anche se le battute che gli vengono assegnate spesso sono funzionali allo sviluppo della trama ma non al personaggio.

Una visione in ogni caso interessante, nel solco dei western atipici, introspettivi e ibridati con altri generi (come I Segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee ma soprattutto I Fratelli Sisters di Jacques Audiard), ma consiglio sentitamente di leggere il romanzo prima di vedere il film, che è disponibile su Netflix insieme a un Dietro le quinte di mezz’ora che poteva essere molto più interessante se non si fosse limitato ad un’intervista generica alla regista.

Voto: 3 Muffin 

Due Estranei

Titolo originale: Two Distant Strangers

Anno: 2021

Durata: 32 minuti

Regia: Travon Free, Martin Desmond Roe

Interpreti: Joey Badass, Andrew Howard, Zaria

Dove trovarlo: Netflix

Questo cortometraggio ha da poco vinto l’Oscar della sua categoria, usando un approccio diverso per raccontare la problematica, più che mai attuale negli Stati Uniti, delle violenze da parte delle forze dell’ordine ai danni delle persone di colore. Negli ultimi anni l’Academy si è dimostrata particolarmente sensibile alle tematiche affrontate dalle opere in concorso, e Due Estranei non fa eccezione, cavalcando senza dubbio l’onda di un argomento già nel cuore della politica e del giornalismo, ma utilizzando un punto di vista diverso, più cinematografico che documentaristico, per avvicinare il pubblico ad un argomento caldo come quello della discriminazione razziale.

Il giovane Carter (Joey Badass) si risveglia nel letto della bella Perri (Zaria) dopo aver passato la notte con lei. La ragazza lo invita a restare a colazione, ma Carter, sebbene molto preso da lei, rifiuta perché ansioso di tornare a casa dal suo cane, Jeter, rimasto solo dalla sera precedente. Carter si veste ed esce, ma non appena arriva in strada viene aggredito da un poliziotto, l’agente Merk (Andrew Howard) che lo accusa immotivatamente di possesso di droga e lo immobilizza. Carter si ritrova a terra, con il poliziotto che schiaccia il suo collo impedendogli di respirare, fino a che non muore. Si risveglia però nel letto di Perri, ancora una volta. Convinto che si sia trattato di un brutto sogno, lascia nuovamente la casa della ragazza per tornare da Jeter, e di nuovo viene fermato dall’agente Merk, che questa volta gli spara e lo uccide. Di nuovo, Carter si risveglia nel letto di Perri. Si rende conto di essere bloccato in un loop temporale, in cui, qualunque cosa faccia, l’agente Carter alla fine lo uccide. Ma il ragazzo non si arrende, deciso a ritornare a casa dal suo cane…

La trama, sebbene non sia originale nel contesto del cinema di fantascienza, trova però un’applicazione nuova nel campo della denuncia sociale; d’altro canto la fantascienza, come tutti i generi cinematografici un tempo considerati “minori” (horror, western…) ha sempre utilizzato metafore per parlare, in realtà, non di pianeti lontani ma del mondo in cui viviamo. Allo stesso modo questo cortometraggio utilizza lo stratagemma narrativo del loop temporale per rappresentare la condizione, apparentemente senza via d’uscita, della popolazione di colore negli Stati Uniti, che viene ancora oggi discriminata talvolta con brutalità e violenza. Il rimando alla morte del giovane George Floyd è molto diretto, e nei titoli di coda scorrono molti altri nomi di persone di colore uccise arbitrariamente dalla polizia americana negli ultimi anni. Two Distant Strangers (il titolo originale sottolinea come i due uomini non siano solo sconosciuti ma siano anche molto distanti tra loro, nonostante si trovino continuamente a stretto contatto) ha un valore civile più alto di quello artistico, e si potrebbe discutere su quale dei due sia stato premiato, ma testimonia, oltre alla condizione difficilissima in cui versa una parte della popolazione statunitense, anche la ricerca, che in questi anni procede per tentativi, a volte maldestri, di un’espressione artistica per tale condizione. Considerando anche la breve durata, Due Estranei è senza dubbio una visione interessante, che lascia allo stesso tempo amareggiati ma anche speranzosi sia nei confronti della situazione delle discriminazioni razziali sia verso quella della cinematografia odierna. Dopo diversi esempi, visti in questi ultimi anni, di rielaborazioni storiche che annullavano le differenze razziali (come il musical Hamilton o le serie Hollywood e Bridgerton), ora assistiamo a nuovi esperimenti cinematografici che tentano di elaborare una condizione civile ed esistenziale difficilissima. Sono sicura che, quando l’arte troverà il modo giusto per incanalare questa condizione, il risultato (forse non solo artistico) sarà ragguardevole.

Moonlight

Titolo originale: Moonlight

Regia: Barry Jenkins

Anno: 2016

Interpreti: Mahershala Ali, Naomie Harris, Alex Hibbert, Ashton Sanders, Trevante Rhodes

Dove trovarlo: RaiPlay (ancora per 4 giorni)

Moonlight è una storia di formazione che ha come protagonista Chiron, un ragazzo di colore che cresce a Miami tra mille difficoltà: la madre con problemi di droga, il padre assente, il bullismo dei compagni di scuola. 

Il film di Barry Jenkins è entrato nella storia del cinema, è vero, ma non come avrebbe meritato. Infatti sarà sempre ricordato dai più come “il film che hanno scambiato con La La Land agli Oscar”. Alla cerimonia degli Academy Awards del 2017 infatti i conduttori Warren Beatty e Faye Dunaway ricevettero la busta sbagliata e proclamarono erroneamente il film di Damien Chazelle La La Land vincitore del premio più prestigioso, quello come miglior film. Lo sbaglio tuttavia venne immediatamente chiarito e, nella confusione generale, venne annunciato il vero vincitore: Moonlight di Barry Jenkins. Sarebbe davvero riduttivo però per questo bel film passare alla storia (del cinema, ma non solo) unicamente per questo qui pro quo. Moonlight, prodotto dalla Plan B di Brad Pitt, ha infatti molti meriti, oltre a quello di aver vinto l’Oscar come miglior film: si è aggiudicato altre due statuette, come miglior sceneggiatura non originale (è tratto infatti dall’opera teatrale di Tarell Alvin McCraney In Moonlight Black Boys look Blue) e miglior attore non protagonista per Mahershala Ali (il CottonMouth della serie Marvel Luke Cage), che è il primo attore di religione musulmana ad ottenere questo riconoscimento. E come se non bastasse, Moonlight è il primo film a tematica LGBT e anche il primo film con un cast interamente composto da afroamericani ad ottenere il premio Oscar come miglior film. Sembra di essere finiti nella serie Netflix Hollywood, in cui tutti quelli che davvero se lo meritano, indipendentemente dalla religione, l’età o il colore della pelle, vengono premiati dall’Academy? Non proprio, ma potrebbe essere un buon inizio. Moonlight ha meritato i riconoscimenti non solamente per i suoi intenti, ma anche per la realizzazione, perché il risultato è un film davvero ben fatto, anche se probabilmente non per tutti vista la moltitudine di tematiche difficili che affronta: solitudine, droga, bullismo, razzismo, scoperta dell’identità sessuale, crimine, crescita. Il protagonista del film si chiama Chiron e viene interpretato da tre attori, tutti di grande bravura e di età diverse per mostrare il suo percorso di formazione: Alex Hibbert è Chiron da bambino, Ashton Sanders da adolescente e Trevante Rhodes da adulto. Il film è dunque nettamente suddiviso in tre parti che però raccontano linearmente lo sviluppo fisico ed emotivo di Chiron. L’incipit del film è appesantito dalla scelta del regista di usare le tecniche di ripresa care alla Nouvelle Vague (pochi stacchi di montaggio, inquadrature da strane angolazioni, assenza di alternanza campo/controcampo), ma questa forma rococò si stempera con l’avanzare del minutaggio, quando lo spettatore viene poco a poco catturato dalle vicende di Chiron e si abitua al linguaggio usato per raccontarle. Grande catalizzatore dell’attenzione e dell’empatia, prima ancora del protagonista che all’inizio del film parla ed agisce poco, è lo spacciatore interpretato da Mahershala Ali che diventa per Chiron una figura paterna, tanto che il bambino finirà per seguirne le orme nel tentativo di guadagnare denaro e rispetto. Quella periferia di Miami che il cinema e la tv hanno spesso raccontato in tutta la sua crudezza e violenza viene qui mostrata in modo sincero ma mai iperrealistico, e fa da sfondo al tentativo del giovane protagonista di crescere e sopravvivere tra mille difficoltà e senza aiuto per trovare se stesso prima ancora che il suo posto nel mondo. A questo proposito il film non ha la supponenza di dare risposte, ma si limita ad offrire allo spettatore una storia credibile e coinvolgente per invitarlo a riflettere sui suoi molti aspetti. RaiPlay rende disponibile Moonlight solo per pochi giorni, ma speriamo sia solamente una finta per invogliare gli spettatori a vederlo, perchè è un film troppo bello e necessario per essere ricordato solamente così: “Alla fine aveva vinto La La L’Altro”.

Voto: 4 Muffin

Intervista Doppia

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Personalmente non ho mai amato lo show Le Iene, ma di sicuro tutti abbiamo visto almeno una delle loro “interviste doppie” in cui a due personaggi famosi venivano poste separatamente le stesse domande. Per questo speciale Cupcake ho voluto immaginare che sia possibile intervistare un film proprio come se fosse una persona, ponendogli domande su se stesso, il suo cast, la sua trama ecc. Ho anche deciso di far diventare questa immaginaria intervista doppia un gioco: infatti non ho scritto i titoli dei film che ho intervistato. Dovrete essere voi, basandovi sulle loro risposte alle mie domande, ad indovinarli! Pronti? Iniziamo con le domande!

  1. Sei un film famoso?

Film 1: Eccome!

Film 2: Certamente!

  1. Hai vinto un Oscar?

Film 1: Uno? Tantissimi!

Film 2: Nessuno ahimè, purtroppo il mio regista non ne ha mai vinti…

  1. Nel tuo cast ci sono attori famosi?

Film 1: Sì, ma soprattutto ho lanciato i miei allora giovani protagonisti!

Film 2: Sì, e il pubblico non si aspettava proprio che uno di loro morisse all’inizio…

  1. Sei un film a colori?

Film 1: Sì e ne vado fiero!

Film 2: No e ne vado fiero.

  1. Hanno fatto uno o più seguiti di te?

Film 1: Ad oggi no, e sembra molto improbabile, ma non si può mai dire…

Film 2: Due seguiti, di registi diversi e assolutamente non all’altezza… e anche un remake fin troppo fedele di cui preferirei non parlare…

  1. Quale pensi sia il tuo peggior difetto?

Film 1: Difetto? Mah… mi è stato detto che sono troppo lungo, ma a me non sembra proprio un difetto!

Film 2: Purtroppo oggi tutti sanno già come vado a finire…

  1. Hai molti effetti speciali?

Film 1: Sì, e meravigliosamente ben fatti!

Film 2: Mi sono sufficienti le giuste inquadrature.

  1. Hai una canzone famosa?

Film 1: Più che famosa, da Oscar!

Film 2: Più che una canzone, una nota…

  1. I bambini possono vederti?

Film 1: Se restano svegli…

Film 2: Oh cielo, no!

  1. Vuoi fare un ultimo saluto?

Film 1: È stato un onore fare questa intervista con voi!

Film 2: Ciao mamma!

Hollywood

Titolo: Hollywood (serie TV)

Anno: 2020

Creatori: Ryan Murphy, Ian Brennan

Cast: David Corenswet, Darren Criss, Laura Harrier, Joe Mantello, Dylan McDermott, Jake Picking, Jeremy Pope, Holland Taylor, Samara Weaving, Mira Sorvino, Patti Lupone, Jim Parsons, Queen Latifah

Dove trovarlo: Netflix (ancora senza il doppiaggio italiano a causa dei rallentamenti dovuti al Covid-19)

Fin dai suoi albori Hollywood ha fornito all’America i mezzi più potenti a disposizione per riscrivere la storia più o meno recente assolvendo ed incensando se stessa. Basti pensare alla pietra angolare Nascita di una Nazione di D. W. Griffith, del lontanissimo 1915, che celebra il razzismo del Ku Klux Klan; o a film di guerra come Berretti Verdi, in cui si tenta di utilizzare il carisma di John Wayne per sostenere l’intervento in Vietnam; o ancora all’accidentalmente escluso dal vastissimo catalogo di Disney Plus La Capanna dello Zio Tom, che racconta come fosse bello e divertente per gli schiavi neri vivere nelle piantagioni di cotone. In tempi più recenti tuttavia il revisionismo storico ha cambiato orientamento, ed abbiamo assistito per esempio all’assassinio di Hitler (non a caso in un cinematografo) prima che desse inizio alla seconda guerra mondiale in Bastardi Senza Gloria. Molte serie tv (Black Mirror, The Man in the High Castle) hanno seguito l’esempio di Tarantino e immaginato un diverso presente (o futuro) basato su un differente passato. Hollywood invece non ci racconta il presente o il futuro, ma un singolo evento del passato che avrebbe potuto cambiare completamente il corso dello sviluppo della cinematografia e della storia tout court, la realizzazione di un film, e lascia allo spettatore immaginare come avrebbe potuto essere il nostro presente se Meg fosse davvero stato girato alla fine degli anni ‘40. Probabilmente i movimenti #metoo e #girlpower non esisterebbero, perché non ce ne sarebbe bisogno. Hollywood mescola i fatti e i personaggi reali con quelli di fantasia, con l’effetto bizzarro di creare nella prima parte un mondo così realistico e triviale da risultare insopportabile e nel finale uno così infantilmente equo e bello da essere altrettanto difficile da accettare. La serie è dunque squilibrata e piena di difetti sostanziali, ma viene salvata in corner dalla bravura degli attori e dalla simpatia di alcuni personaggi. Tutti gli interpreti, più o meno conosciuti, sono davvero bravi, perciò mi soffermerò solo su quelli che mi hanno colpito di più. Jake Picking è efficace nei panni di un giovane e insicuro (soprattutto a causa della sua omosessualità) Rock Hudson, di cui viene raccontato con veridicità l’inizio della carriera sotto l’ala assai protettrice dell’agente Henry Willson (di cui parleremo ancora) ma di cui viene inventato il pubblico coming-out con fidanzato di colore. Parlo poi di quella che per me, per una serie di coincidenze, è diventata l’attrice del momento, Holland Taylor, che interpreta un personaggio di finzione ma del tutto realistico, una sorta di buona madrina per tutte le vittime del grande sistema degli studios hollywoodiani che rischia di ritrovarsi sola. Dico rischia perché alla fine di Hollywood (segue spoiler) ogni personaggio, nessuno escluso, riesce a realizzare il suo sogno, trovando l’amore, la gloria o la redenzione, nel più sfacciato degli happy ending, che però, devo essere sincera, mi ha dato una certa non giustificata soddisfazione emotiva. Parlando di questa serie è impossibile non citare l’attore Jim Parsons (per tutti lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory) che interpreta Henry Willson, un agente di spettacolo realmente esistito che si approfittava spesso dei suoi clienti, Rock Hudson compreso: la scena in cui Parsons si esibisce nella danza di Salomè tornerà nei miei incubi negli anni a venire. Ruolo marginale come minutaggio ma fondamentale per Queen Latifah nei panni di Hattie McDaniel, la prima attrice di colore a vincere un Academy Award per il ruolo di Mammy in Via col Vento del 1939 come miglior attrice non protagonista, che nonostante questo, proprio come racconta il suo personaggio, non ebbe il permesso di entrare nel salone della cerimonia: qui Hattie si prende virtualmente una rivincita sull’Academy. Anche tenendo conto di tutti i suoi difetti e della sua premessa non necessariamente condivisibile, che si basa su un film fittizio intitolato Meg per il quale, alla fine degli anni ‘40, tutti alla fine vincono un Oscar, compresa la protagonista di colore, il protagonista esordiente reduce dal conflitto mondiale, lo sceneggiatore di colore e omosessuale, l’attrice asiatica e il regista in parte filippino, credo sarà difficile per i cinefili astenersi dalla visione, se non altro per la curiosità di vedere insieme tanti bravi attori del grande e piccolo schermo e tanti personaggi della vecchia Hollywood. C’è però una mancanza secondo me imperdonabile, soprattutto considerando il fatto che Ian Brennan e Ryan Murphy sono stati anche gli autori di Glee e che sappiamo per certo che alcuni degli interpreti hanno grandi abilità canore (abbiamo apprezzato la voce d’angelo di Darren Criss proprio in Glee, quella di Queen Latifah in Chicago, e perchè no, Jim Parsons nel cult Soffice Kitty): nessun numero da musical hollywoodiano. Peccato.