Pietà

Titolo originale: Pietà

Anno: 2012

Regia: Kim Ki-duk

Interpreti: Cho Min-soo, Lee Jung-jin

Dove trovarlo: Raiplay

Il giovane Kang-do vive una vita squallida e solitaria lavorando come “recuperatore di crediti” per gli strozzini in una zona di Seul povera e sporca, privo di interessi e di affetti, compiacendosi nella violenza che perpetra sui creditori disperati. Un giorno Kang-do si accorge di una donna sconosciuta che lo segue ovunque. Lui la scaccia e la insulta ma lei persevera, anzi inizia a fargli dei favori (procurandogli ad esempio del cibo) ed entra persino in casa sua tentando di ripulirla. Kang-do diventa sempre più aggressivo, finché la donna non gli rivela di essere la madre che lo ha abbandonato poco dopo la sua nascita, tornata per rimediare al suo errore. L’ostilità e la diffidenza del ragazzo si dissipano presto e i due cercano di stabilire un rapporto e tentare di recuperare il tempo perduto. Kang-do non se ne accorge, accecato dalla gioia di sentirsi per la prima volta amato, ma la madre sembra nascondere un oscuro segreto…

L’improvvisa morte del celebre regista coreano Kim Ki-duk a causa del Covid-19, che ho tanto amato in gioventù, mi ha spinto a recuperare questo suo film, disponibile su Raiplay, un po’ più recente rispetto a L’Arco, ultimo film del regista che avevo visto e che non mi era piaciuto a causa del simbolismo confuso e della morbosità della situazione narrata. In Pietà invece ho ritrovato quello che mi ha sempre affascinata di questo grande regista: un racconto lucido e molto sentito dei sentimenti umani, che sopravvivono anche nella miseria e nella violenza più atroce, e anzi in alcuni casi germogliano in esse. I film di Kim Ki-duk infatti trasmettono sempre la fiducia nel genere umano e nella sua capacità di amare e aiutare il suo prossimo, anche contro ogni logica e ogni ragione. In questo caso il sentimento protagonista è la pietà, come esplicitato dal manifesto del film ispirato all’omonima scultura di Michelangelo. La visione non è sempre facile, la ben nota violenza che è cifra stilistica dell’autore di certo non lo rende un film per tutti, ma io trovo che il messaggio finale sia ancora una volta positivo e ricco di speranza, a ripagare tutti i turbamenti dello spettatore. Sembra incredibile la rapidità con cui Kang-ho passa dalla violenza fisica verso una donna sconosciuta che crede bugiarda all’abbandono totale al suo affetto e al desiderio di rivivere l’infanzia perduta accanto alla madre: in poche scene il ragazzo passa da spietato mutilatore a bambino felice che gioca con i palloncini e mangia zucchero filato. Tale è il bisogno di affetto, dalla cui mancanza nasceva quella compiaciuta violenza che tanti guai continuerà a procurargli, perché, proprio come nel film di Tim Burton Sweeney Todd, dalla violenza non può mai derivare la felicità, che nasce invece dai legami empatici tra gli esseri umani, ma solo altra violenza. Unico difetto del film è la scena finale, in cui il titolo “Pietà” viene spiegato dalla protagonista in un monologo didascalico narrativamente poco efficace: avrei preferito un altro modo per far trasparire i suoi contrastanti sentimenti nell’apice della storia. A parte questa piccola pecca il film, anche se non offre una prospettiva nuova rispetto alle altre opere del regista coreano, è efficace, potente, appagante, ma di sicuro questo tipo di cinema non è per tutti. Consigliato a chi già conosce e ama il regista; per chi volesse approcciarsi a Kim Ki-duk per la prima volta consiglio invece Ferro 3, il più divertente e meno violento tra quelli che ho visto nonché il mio preferito.

Voto: 3 Muffin

Lo Straordinario Mondo di Zoey

Titolo originale: Zoey’s Extraordinary Playlist

Anno: 2020

Interpreti: Jane Levy, Skylar Astin, Alex Newell, Peter Gallagher, Lauren Graham

Dove trovarlo: RaiPlay

Zoey (Jane Levy) lavora per una grande azienda informatica insieme al suo migliore amico, Max (Skylar Astin), segretamente innamorato di lei, e a Simon (John Clarence Stewart), di cui lei è segretamente innamorata ma che è già fidanzato. Con il suo capo, Joan, ha un rapporto complicato fatto di alti e bassi. La situazione in famiglia non è per nulla facile: al padre Mitch, con cui Zoey aveva un bellissimo rapporto, è stata diagnosticata una malattia rara che lo ha condotto in breve tempo ad uno stato semi-catatonico e lo porterà inevitabilmente alla morte in poco tempo. Un giorno, subito dopo aver effettuato una risonanza magnetica, Zoey si rende conto che qualcosa in lei è cambiato: ora è in grado di percepire i pensieri e gli stati d’animo delle persone che le stanno intorno. E la percezione avviene sotto forma di… numero musicale!

Lo Straordinario Mondo di Zoey è una serie di 12 episodi di circa 40 minuti ciascuno – una seconda serie è già stata annunciata per il prossimo anno – adatta esclusivamente agli amanti del musical. Infatti, per chi non ama le canzoni, i balletti e i numeri musicali in genere potrebbe risultare davvero noiosa. I personaggi, le vicende e la trama non sono particolarmente coerenti o interessanti, ma piuttosto elaborati in funzione alle canzoni che devono descrivere di volta in volta le emozioni e i turbamenti di ciascuno. L’assunto di per sé è piuttosto semplice e non originale, ma se lo si accetta è possibile passare qualche tranquilla serata a godersi un’opera senza pretese, divertente ma in alcuni passaggi anche commovente: tutto quello che riguarda la malattia del padre di Zoey, interpretato dal talentuoso Peter Gallagher, che esce dalla sua immobilità per cantare e danzare con la figlia, mi ha fatto versare un bel po’ di lacrime. Ho trovato però anche momenti divertenti, su tutti il numero tratto da Jesus Christ Superstar e la maggior parte di quelli affidati a Lauren Graham, la Lorelai Gilmore di Una Mamma per Amica. Gli interpreti sono tutti all’altezza e le coreografie, ideate dalla cantante Mandy Moore (che compare in un cameo nei panni di se stessa), sono originali ma tipicamente hollywoodiane allo stesso tempo. Di grande effetto il numero eseguito dai ballerini che interpretano ragazzi sordomuti. Una piacevolissima sorpresa per me quella di ritrovare in un episodio l’attrice Bernadette Peters, che interpretava la soubrette Vilma Kaplan in Silent Movie di Mel Brooks: essendo il film di Brooks muto, mi ero goduta le sue gag e i suoi balletti ma non avevo mai sentito la sua voce, così sento di aver finalmente colmato una lacuna.

Empire State

Anno: 2013

Regia: Dito Montiel

Interpreti: Liam Hemsworth, Michael Angarano, Dwayne Johnson

Dove trovarlo: Raiplay

Chris Potamitis (Liam Hemsworth) desidera da sempre entrare in polizia, ma a causa di una bravata giovanile commessa ad un concerto insieme all’amico d’infanzia Eddie (Michael Angarano) la sua domanda viene continuamente respinta. Per sbarcare il lunario si fa assumere come guardiano in un magazzino scalcinato dove vengono custoditi moltissimi soldi, sicuramente sporchi. Quando il padre perde il lavoro, Chris si decide a tentare insieme a Eddie e ad altri piccoli criminali di rapinare il magazzino. Ma la polizia viene in qualche modo a sapere del colpo in anticipo e il detective James Ransome (Dwayne Johnson) fa irruzione sulla scena del crimine…

Questo post è al 100% privo di spoiler. Il vero motivo non è tanto l’etica professionale del serio critico cinematografico quanto il fatto che verso la fine facevo molta fatica a tenere gli occhi aperti e temo di essermi assopita per alcuni minuti. Mi sono però ripresa per i titoli di coda, che spiegano come Empire State si ispiri a una rapina realmente avvenuta e ai suoi reali protagonisti, di cui vengono anche mostrate le interviste. Giuro che non credevo fosse possibile addormentarsi davanti a un film con The Rock! Eppure… La colpa è dell’ossessività con cui il regista cerca di raccontare i fatti così come si sono svolti nella realtà, inserendo solamente dialoghi coloriti (per lo più monologhi dell’insopportabile Eddie) per dare un pizzico di vitalità ma senza dare alla vicenda alcun guizzo nè alcun ritmo. Questa spasmodica ricerca della veridicità lo spinge anche a inserire un numero troppo alto di personaggi, che sicuramente nella realtà erano coinvolti nella vicenda (compare perfino l’allora procuratore di New York Rudolph Giuliani, interpretato da Dan Triandiflou) ma che nel film creano un sovraffollamento confuso e fastidioso poiché nessuno di loro viene ben caratterizzato o approfondito. Inoltre il film non ha nemmeno un briciolo di ironia, come la presenza di Dwayne Johnson (il motivo per cui ho pensato di vedere questo film) poteva far sperare, che forse avrebbe potuto aiutare a colorare un po’ la narrazione, ma non si sposava con l’idea sospesa tra documentario e heist movie del regista. Il risultato è quindi un film noioso che lascia insoddisfatti: da una parte ci si sarebbe voluti fare almeno qualche risata, dall’altra si cercava un po’ di azione che invece manca, oppure un bel colpo grosso alla Ocean di cui non c’è traccia. Un vero e proprio documentario sulla rapina del 1982 sarebbe stato più interessante. Concludo con una domanda che mi sono posta per tutta la durata del film, e che forse ha contribuito a mantenere sveglia la mia incredulità (almeno quella): come è possibile anche solo per un momento pensare che Liam Hemsworth, fratello minore di Chris “Thor” Hemsworth (e come lui biondo, occhi azzurri, alto e muscoloso), sia greco e faccia di cognome “Potamitis”? Gli altri attori che interpretano i membri della famiglia di Chris sono tutti perfetti nel ruolo, anche fisicamente, ma lui? Ci avrei creduto di più se nel ruolo ci fosse stato l’attore preferito di Dito Montiel, Channing Tatum, protagonista di tutti i film diretti dal regista fino a questo… Ho ipotizzato che il ruolo fosse stato assegnato a Liam in virtù dell’aderenza alla realtà dei fatti, ma dalle immagini dell’intervista al vero Potamitis risulta chiaro che così non è: ma che senso ha voler raccontare tutta la verità però mettendo un protagonista più avvenente e più biondo?

Voto: 1 Muffin

Big Eyes

Anno: 2014

Regia: Tim Burton

Interpreti: Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Terence Stamp, Jason Schwartzman

Dove trovarlo: RaiPlay

Tratto dalla storia vera della pittrice Margaret Keane, che negli anni ‘60 ha dovuto sostenere una durissima battaglia legale contro il marito per riappropriarsi dei diritti delle proprie opere, i quadri da lei dipinti che ebbero enorme diffusione e successo negli anni ‘50 ma che il marito reclamava come proprie creazioni. Il titolo del film deriva dalla caratteristica principale dei ritratti di Margaret, tutti raffiguranti bambini e bambine dai grandissimi occhi.

Incredibile come talvolta realtà e finzione si integrino alla perfezione. L’ambientazione di Big Eyes, infatti, ricorda moltissimo quella rappresentata da Tim Burton in molti dei suoi film. Forse quello più indicativo in questo caso è Edward – Mani di Forbice e della sua provincia americana a tinte pastello con casette a schiera, giardini curati e staccionate bianche, dove però l’aspetto idilliaco nasconde in realtà i sentimenti più meschini; lo stesso si può dire di Walter Keane (interpretato egregiamente da Christoph Waltz, che non smentisce la sua fama di villain perfetto), il marito, così generoso e galante ma in realtà egoista e menzognero fin dall’inizio. E i ritratti di bambini dai grandi occhi sproporzionati ricordano moltissimo i personaggi dei film in stop-motion del regista, come Nightmare Before Christmas (di cui in realtà è solo produttore ma che si può senz’altro considerare una sua creazione) e La Sposa Cadavere. Non è dunque una sorpresa apprendere che il regista stesso è appassionato e anche collezionista dei quadri di Margaret Keane. Impossibile quindi pensare ad un diverso regista per raccontare la storia vera, tribolata ma a lieto fine, della pittrice Margaret Keane, interpretata magistralmente da Amy Adams, bravissima a rendere tanto il lato fragile e sottomesso quanto quello sicuro e determinato del suo personaggio. Pur trattandosi della biografia di un’artista il film non ha mai un momento noioso grazie alla ricchezza con cui sono caratterizzati i personaggi principali e alla felice abbondanza di comprimari di lusso: Terence Stamp temibile critico d’arte; Jason Schwartzman intransigente gallerista modaiolo; Krysten Ritter, finalmente libera dal chiodo nero di Jessica Jones, in veste chiacchierona e sbarazzina. Nei titoli di coda viene raccontato cosa accadde realmente dopo il processo Keane vs. Keane e si scopre che la stessa Margaret Keane, ancora oggi in vita e ancora in attività all’epoca del film, ha dato il suo contributo incontrando personalmente Amy Adams. Un gran bel film adatto ai fan di Tim Burton ma anche a coloro che normalmente lo evitano; una piacevolissima occasione per scoprire qualcosa di più sulla storia dell’artista Keane ma anche del regista Tim Burton, evidentemente influenzato dalle sue opere fin dall’inizio.

Voto: 4 Muffin

La Partita

Anno: 2019

Regia: Francesco Carnesecchi

Interpreti: Francesco Pannofino, Alberto Di Stasio, Giorgio Colangeli, Gabriele Fiore

Dove trovarlo: RaiPlay

Una vasta gamma di drammi personali, economici e familiari si incrociano intorno ad un campo da calcio, quello di Quarticciolo in cui lo Sporting Roma sta disputando la finale del campionato locale. Tutti gli occhi sono puntati sul numero dieci, Antonio (Gabriele Fiore), attaccante che potrebbe portare la squadra a vincere di nuovo la coppa dopo quarant’anni: ma non tutti desiderano la vittoria della sua squadra.

Non c’è bisogno di spendere molte parole per dire quanto sia importante il gioco del calcio per la cultura popolare italiana: questo sport è onnipresente nella vita quotidiana di tutti. Anche di chi non è tifoso e non lo segue conosce suo malgrado i nomi delle squadre e dei giocatori più blasonati. Nonostante questo tuttavia è sempre stato difficilissimo per il nostro cinema raccontare il calcio. Francesco Carnesecchi con La Partita fa un nuovo tentativo, scegliendo però di parlare non della serie A ma di un campionato minore in cui si sfidano squadre di giovanissimi: eppure, anche in questo microcosmo calcistico, ritroviamo tutti i drammi e le brutture di cui purtroppo il calcio italiano di alto livello è pieno zeppo. Contrariamente a quanto il titolo farebbe pensare, di calcio giocato in questo film se ne vede ben poco, perché il focus è sui drammi di ogni genere che tormentano tutti i personaggi legati in modo più o meno diretto con lo Sporting Roma. Anche se fin dall’inizio è chiaro che ci troviamo in un territorio molto lontano da quello di Un Allenatore nel Pallone, la cosa sfiancante di questo film è che in 90 minuti (sicuramente la scelta non è casuale) nessuno dei personaggi ha mai una gioia o un soddisfazione. L’allenatore Claudio (Francesco Pannofino) decide di porre fine alla sua amatissima carriera di allenatore a prescindere dal risultato; il presidente Italo (Alberto Di Stasio), mentre il figlio cocainomane sogna erba sintetica per il loro campo da gioco, si perde in un giro di scommesse sportive da cui è impossibile uscire vincitori; il talento in erba Antonio (Gabriele Fiore) si infortuna gravemente, mentre suo padre ha scommesso contro di lui e sua madre si accapiglia con l’odiosa cognata. E si potrebbe continuare, perché non c’è un vero lieto fine per nessuno, né in campo né fuori, in barba a tutti i film americani con cui siamo cresciuti in cui lo sport è un mezzo di emancipazione e riscatto (il mio preferito è Fuga per la Vittoria con Sylvester Stallone e Pelè). Tuttavia, pur accettando lo spirito disfattista (cosa che non molti tifosi sportivi fanno volentieri) il film ha molti difetti cui è impossibile passare sopra. Dal punto di vista formale ci sono molte inquadrature davvero inspiegabili (droni sopra il campetto di Quarticciolo, carrellate alle spalle, inquadrature dal basso…) che disturbano la visione; inoltre, ben sapendo che non sarebbe realistico epurare tutte le brutte parole dai dialoghi, eliminando tutto il turpiloquio la durata del film si riduce probabilmente a quella del primo tempo. Il che ci porta all’errore concettuale di voler incorniciare tutto il film nei 90 minuti della partita, presentandoci quindi tutti i personaggi e i loro drammi con dei continui flashback che, se funzionavano benissimo per uno dei cartoni più amati della mia infanzia, Holly e Benji, qui sono invece confusi e spiazzanti. Io sono un’appassionata di cinema che ama anche guardarsi una bella finale di Champions League, e questo film mi lascia l’idea che a volte è molto meglio una bella partita di un brutto film.

Voto: 1 Muffin

C’era una Volta Los Angeles

Titolo Originale: Once Upon a Time in Venice

Anno: 2017

Regia: Marc Cullen

Interpreti: Bruce Willis, John Goodman, Jason Momoa, Thomas Middeditch, Famke Janssen

Dove trovarlo: RaiPlay

Steve Ford (Bruce Willis) è un ex poliziotto divenuto investigatore privato che con il suo giovane aiutante John (Thomas Middeditch) sistema molte incresciose faccende nel quartiere di Los Angeles chiamato Venice. In seguito a una delle sue indagini Steve si crea un nemico, il boss della droga Spyder (Jason Momoa), che decide di dargli una lezione portandogli via il suo amato cagnolino Buddy. Steve però, con l’aiuto del suo vecchio compagno di surf Dave (John Goodman) è disposto a tutto pur di salvare il suo amico a quattro zampe.

Di sicuro è stata una scelta obbligata per i traduttori quella di cambiare il titolo del film, in originale Once Upon a Time in Venice, anche se è di certo divertente immaginare gli inseguimenti e le scene d’azione di questo film ambientati nella nostra Venezia, tra canali, gondole e chicchetti. C’era una volta a Los Angeles non è un film per gli amanti dell’azione più tosta e adrenalinica, perchè punta molto di più sullo humor che sulla violenza, riuscendo anche a creare qualche situazione davvero spassosa (l’inseguimento di Bruce Willis nudo sullo skateboard o l’interrogatorio di John nel bar dei bikers). A tutto il resto ci pensa il cast. Non serve certo che io spenda molte parole per elogiare la simpatia di Bruce Willis, che fin dal suo esordio televisivo con la simpatica serie Moonlighting ha vestito i panni del duro (investigatore o poliziotto o simile) che tra un inseguimento e un colpo di pistola ti fa fare grandi risate. Lo affianca degnamente Thomas Middeditch, protagonista della serie Silicon Valley, adattissimo per fare il discepolo imbranato. L’amico di sempre invece è il mitico John Goodman, non nella sua interpretazione più memorabile, ma vederlo è sempre piacevole. Per la prima volta nel ruolo di antagonista (lo spacciatore dal cuore d’oro) il muscoloso Jason Momoa, diventato famoso nei (pochi) panni di Aquaman, che se la cava molto bene nella sua parte. In seconda fila poi una serie di parti minori affidate ad interpreti famosi: Famke Janssen, la bellissima Jean Grey dei vecchi film degli X-Men, è la sorella di Steve; Billy Gardell, il Mike della sit-com Mike & Molly è un ex collega poliziotto che non si accorge che Bruce Willis, che correva nudo per strada,si è nascosto una pistola tra le natiche; David Arquette passa per strada e propone a Steve, che sembra non conoscerlo, di formare una band. Questi personaggi secondari di lusso contribuiscono a dare una patina rassicurante e familiare al film, che non è un capolavoro ma è perfetto per una serata tranquilla senza pensieri con qualche bella risata e molti sorrisi, anche se non tutte le trovate sono così divertenti come vorrebbero essere. Sorvoliamo sui personaggi, che non hanno alcuno spessore psicologico e non sono per nulla credibili, ma sono funzionali alle trovate comiche e alle svolte della trama. Trama che, all’apparenza, è quella del classico revenge movie d’azione, mentre in realtà non è che una bella favola in cui alla fine, dopo molte sorprese, nessuno è davvero cattivo e ogni personaggio trova il suo lieto fine. Non poteva essere diversamente per un film dal titolo C’era una volta a Venezia.

Voto: 3 Muffin

Tutto Può Accadere a Broadway

Titolo originale: She’s Funny That Way

Anno: 2014

Regia: Peter Bogdanovich

Interpreti: Owen Wilson, Imogen Poots, Kathryn Hahn, Rhys Ifans, Jennifer Aniston

Dove trovarlo: RaiPlay

Arnold Albertson (Owen Wilson) è un regista di teatro di successo e ha una bellissima moglie, Delta (Kathryn Hahn), che è anche l’attrice protagonista della sua nuova commedia. Ciononostante è sua abitudine non solo accompagnarsi con delle escort, ma anche elargire loro cospicue somme di denaro affinché possano cambiare le proprie vite. Quando una delle beneficiarie di queste sue opere di bene, la bella e dolce Isabella (Imogen Poots), si presenta al provino per la parte della prostituta nella sua commedia, per Arnold iniziano i guai…

Tutto Può Accadere a Broadway è prima di tutto una commedia slapstick molto ben riuscita, con scene e dialoghi davvero divertenti ammanniti da un cast splendido e scelto con accuratezza che si muove con disinvoltura dalle scene di vita normale a quelle più surreali tipiche del sottogenere (Delta che finisce in prigione per furto, il tassista che abbandona la sua vettura in mezzo alla strada, il detective privato travestito da rabbino…). I personaggi sono tutti ben riusciti, realistici nonostante siano tutti sopra le righe, ognuno a suo modo, e si fanno voler bene non solo grazie al talento degli interpreti ma anche perché, proprio come le persone vere, traboccano tanto di pregi quanto di difetti. Owen Wilson è perfetto per la parte del regista fedifrago prodigo, che forse nel tentativo di redimersi o forse per genuino altruismo, dona cospicue somme di denaro alle escort che frequente per permettere loro di cambiare le loro vite, trovandosi intrappolato in una rete di bugie, sotterfugi e nomi falsi che però non scalfisce il suo profondo amore per la moglie. Rhys Ifans, attore che mi piace molto, si fa anche lui voler bene perché il suo stile di vita cinico, frivolo e peccaminoso è in realtà un tentativo di sopperire al rifiuto del suo grande amore, Delta, che gli ha preferito Arnold. Tutti i personaggi, anche quelli secondari come i genitori di Isabella, il detective e il giudice, sono perfettamente formati e interconnessi con gli altri e hanno il proprio ruolo e la propria funzione in questo gioco di incastri tra idiosincrasie e caratteri che nella conclusione vede un lieto (abbastanza) fine per tutti. Ma il vero trionfo in questo film, come si capisce dal titolo originale She’s Funny That Way (Lei è divertente in quel modo), è quello delle donne, a partire dalla sceneggiatrice Louise Stratten (che è anche moglie del regista) fino alle attrici che con i loro personaggi hanno i ruoli più complessi e sfaccettati. Da applauso la bella e dolce Imogen Poots nei panni della prostituta e aspirante attrice Isabella, che è anche la narratrice della storia, tutta ricostruita tramite il suo racconto durante un’intervista. Il suo personaggio è di una tenerezza disarmante, tanto che tutti gli altri non possono che volerle bene nonostante tutto, anche se, come si capisce dalle sue riflessioni con la giornalista, è tutt’altro che intelligente; ciononostante il suo buon carattere alla fine la porta al successo non solo nel teatro ma anche nel cinema, tanto da concludere l’intervista (e il film) uscendo sottobraccio ad un famosissimo regista (non rivelerò quale, vi consiglio di vedere il film). Kathryn Hahn con la sua Delta è il centro di gravità del film, remissiva solo in apparenza ma in realtà forte e determinata nell’ottenere ciò che vuole. La vera gemma, però, è Jennifer Aniston, che con la sua psicoterapeuta psicotica regala grandi risate e le battute più incisive: bellissima e bravissima. Dunque riassumendo: ottimi interpreti, belle battute, scene assurde, dialoghi spassosi. Ma non è ancora tutto. Peter Bogdanovich, regista e sceneggiatore, ha inserito in filigrana una satira del mondo dello spettacolo, in cui i grandi successi e le carriere sfolgoranti spesso sono frutto di incredibili coincidenze e commistioni di diverse turbe mentali. Ma, a ben pensarci, in quale settore della vita umana non è così?

Voto: 4 Muffin

Shark Invasion

Questo è un puzzle casalingo realizzato dai miei bambini. Ok, l’ho fatto io insieme ai miei bambini. Ok, l’ho fatto io per i miei bambini. Volevano un puzzle nuovo e faceva troppo caldo per uscire a comprarlo… Ora avete capito come mai qui su Cine-muffin non trovate mai disegni fatti da me ma solamente locandine oppure foto di muffin. Come potete vedere però, siccome sono ben consapevole del fatto di non essere per niente abile nel disegno, ho trasformato il puzzle in una vignetta divertente. Non è certo un’idea originale, è la lezione che abbiamo imparato dalla serie di film sugli squali assassini Sharknado: se non hai i mezzi per realizzare dei buoni effetti speciali buttala in ridere. E ha funzionato alla grande, visto che il film ha avuto ben cinque seguiti ed è diventato un cult del suo genere! C’è però chi questa lezione proprio non l’ha capita…come ad esempio Shark Invasion!

Titolo originale: Raging Shark

Anno: 2005

Regia: Danny Lerner

Interpreti: Corin Nemec, Vanessa Angel, Corbin Bernsen

Dove trovarlo: RaiPlay

Sul fondo dell’oceano, nel triangolo delle Bermuda, si trova una stazione sottomarina in cui gli scienziati studiano il comportamento degli squali, che diventano inspiegabilmente aggressivi e attaccano la struttura. Che lo strano comportamento degli squali abbia a che fare con lo strano UFO precipitato in mare?

Innanzitutto mi sono chiesta come mai i titolisti italiani avessero sentito il bisogno di cambiare il titolo del film da Raging Sharks a Shark Invasion, poi mi sono resa conto che in effetti Squali Arrabbiati forse non sarebbe stata una buona scelta… Questo film è in sostanza un compendio di tutte le cose brutte che siamo abituati a vedere nei film del genere “animali assassini”, ma il suo difetto più grosso è appunto quello di cercare di prendersi sul serio, quando solamente una bella glassatura ironica poteva, forse, salvarlo. Segue elenco di tutte le cose brutte del film, che dovrebbe scoraggiare una parte dei possibili spettatori ma incoraggiare invece quelli che, nei film di creature ammazza-uomini, cercano proprio questo. La trama è inverosimile e tira in ballo perfino un materiale sconosciuto proveniente dallo spazio profondo (che naturalmente è di color arancio fluo) che può determinare il comportamento degli squali del nostro pianeta. I personaggi sono superficiali e stereotipati, mentre gli attori che li interpretano sembrano appena arrivati dal set di un film per adulti (quanto trucco serve indossare per lavorare in una stazione sottomarina?) da quanto recitano male. Gli effetti speciali sono al livello di quelli degli sketch di Paperissima di Lorella Cuccarini e Marco Columbro, e quando c’è da mostrare uno squalo o un sottomarino vengono utilizzati a ripetizione sempre gli stessi fotogrammi di repertorio. Gli eventi si evolvono senza avere mai alcuna motivazione scientifica, logica o psicologica: in pratica capitano cose a caso tra un morto e l’altro. Gli squali, forse inconsapevoli di possedere un muso estremamente sensibile, tentano ripetutamente di distruggere la stazione a nasate. Forse è per questo che sono arrabbiati, ed essendo arrabbiati naturalmente ruggiscono (!). L’unica persona che ci ha messo un po’ d’impegno è stato il responsabile del casting, che non so in quale modo è riuscito a coinvolgere in questo pasticcio Corbin Bernsen, che è un attore talentuoso ma soprattutto simpaticissimo. Tuttavia, poiché come ho detto all’inizio questo film è al 100% privo di autoironia, non ha saputo sfruttare per niente la sua presenza, e anzi gli ha affidato il ruolo davvero ingrato del comandante del sottomarino militare che giunge sul posto per le operazioni di salvataggio senza portare nemmeno un salvagente ma solo tanti missili; dunque il comandante si parcheggia nelle vicinanze e inizia a prendere ordini da chiunque, davvero chiunque, dal sedicente ispettore della sicurezza agli scienziati che lavoravano da anni zitti zitti in una struttura non a norma. Pronti a giocare a indovinare chi muore per primo? Sì, ma se non indovini… Non t’arrabbiare!

Voto: 1 Muffin

Moonlight

Titolo originale: Moonlight

Regia: Barry Jenkins

Anno: 2016

Interpreti: Mahershala Ali, Naomie Harris, Alex Hibbert, Ashton Sanders, Trevante Rhodes

Dove trovarlo: RaiPlay (ancora per 4 giorni)

Moonlight è una storia di formazione che ha come protagonista Chiron, un ragazzo di colore che cresce a Miami tra mille difficoltà: la madre con problemi di droga, il padre assente, il bullismo dei compagni di scuola. 

Il film di Barry Jenkins è entrato nella storia del cinema, è vero, ma non come avrebbe meritato. Infatti sarà sempre ricordato dai più come “il film che hanno scambiato con La La Land agli Oscar”. Alla cerimonia degli Academy Awards del 2017 infatti i conduttori Warren Beatty e Faye Dunaway ricevettero la busta sbagliata e proclamarono erroneamente il film di Damien Chazelle La La Land vincitore del premio più prestigioso, quello come miglior film. Lo sbaglio tuttavia venne immediatamente chiarito e, nella confusione generale, venne annunciato il vero vincitore: Moonlight di Barry Jenkins. Sarebbe davvero riduttivo però per questo bel film passare alla storia (del cinema, ma non solo) unicamente per questo qui pro quo. Moonlight, prodotto dalla Plan B di Brad Pitt, ha infatti molti meriti, oltre a quello di aver vinto l’Oscar come miglior film: si è aggiudicato altre due statuette, come miglior sceneggiatura non originale (è tratto infatti dall’opera teatrale di Tarell Alvin McCraney In Moonlight Black Boys look Blue) e miglior attore non protagonista per Mahershala Ali (il CottonMouth della serie Marvel Luke Cage), che è il primo attore di religione musulmana ad ottenere questo riconoscimento. E come se non bastasse, Moonlight è il primo film a tematica LGBT e anche il primo film con un cast interamente composto da afroamericani ad ottenere il premio Oscar come miglior film. Sembra di essere finiti nella serie Netflix Hollywood, in cui tutti quelli che davvero se lo meritano, indipendentemente dalla religione, l’età o il colore della pelle, vengono premiati dall’Academy? Non proprio, ma potrebbe essere un buon inizio. Moonlight ha meritato i riconoscimenti non solamente per i suoi intenti, ma anche per la realizzazione, perché il risultato è un film davvero ben fatto, anche se probabilmente non per tutti vista la moltitudine di tematiche difficili che affronta: solitudine, droga, bullismo, razzismo, scoperta dell’identità sessuale, crimine, crescita. Il protagonista del film si chiama Chiron e viene interpretato da tre attori, tutti di grande bravura e di età diverse per mostrare il suo percorso di formazione: Alex Hibbert è Chiron da bambino, Ashton Sanders da adolescente e Trevante Rhodes da adulto. Il film è dunque nettamente suddiviso in tre parti che però raccontano linearmente lo sviluppo fisico ed emotivo di Chiron. L’incipit del film è appesantito dalla scelta del regista di usare le tecniche di ripresa care alla Nouvelle Vague (pochi stacchi di montaggio, inquadrature da strane angolazioni, assenza di alternanza campo/controcampo), ma questa forma rococò si stempera con l’avanzare del minutaggio, quando lo spettatore viene poco a poco catturato dalle vicende di Chiron e si abitua al linguaggio usato per raccontarle. Grande catalizzatore dell’attenzione e dell’empatia, prima ancora del protagonista che all’inizio del film parla ed agisce poco, è lo spacciatore interpretato da Mahershala Ali che diventa per Chiron una figura paterna, tanto che il bambino finirà per seguirne le orme nel tentativo di guadagnare denaro e rispetto. Quella periferia di Miami che il cinema e la tv hanno spesso raccontato in tutta la sua crudezza e violenza viene qui mostrata in modo sincero ma mai iperrealistico, e fa da sfondo al tentativo del giovane protagonista di crescere e sopravvivere tra mille difficoltà e senza aiuto per trovare se stesso prima ancora che il suo posto nel mondo. A questo proposito il film non ha la supponenza di dare risposte, ma si limita ad offrire allo spettatore una storia credibile e coinvolgente per invitarlo a riflettere sui suoi molti aspetti. RaiPlay rende disponibile Moonlight solo per pochi giorni, ma speriamo sia solamente una finta per invogliare gli spettatori a vederlo, perchè è un film troppo bello e necessario per essere ricordato solamente così: “Alla fine aveva vinto La La L’Altro”.

Voto: 4 Muffin

Captain Fantastic

Anno: 2016

Regia: Matt Ross

Interpreti: Viggo Mortensen, George MacKay, Frank Langella

Ben e Claire hanno deciso di crescere i loro sei figli in modo non convenzionale, vivendo nei boschi e sottoponendoli ad una rigidissima disciplina che comprende la caccia, l’allenamento fisico estremo, la filosofia, le lingue straniere e molte altre cose. Alla morte di Claire, che dopo l’ultimo parto soffriva di una depressione tale da indurla al suicidio, Ben e i ragazzi dovranno affrontare il mondo reale per presenziare al funerale.

Qualche giorno fa ho deciso di dare un’occhiata al catalogo di RaiPlay e mi sono imbattuta in questo film, di cui non mi sarei mai ricordata se non fosse per il titolo fumettistico e la presenza di Viggo Mortensen. Ma soprattutto, sotto la locandina campeggiava la scritta “disponibile solo per un giorno”, e così, come una qualsiasi vittima delle classiche televendite con le strepitose offerte “solo per oggi”, mi sono lasciata convincere a vederlo quella sera stessa. Innanzitutto Captain Fantastic non ha proprio niente a che vedere con i noti supereroi con maschera e mantello, anzi, è un film tecnicamente e visivamente semplice che però invita a riflettere su argomenti molto controversi e complessi. Ben decide di crescere i suoi figli fuori da ogni schema e convenzione sociale, con il risultato di formare sei ragazzi svegli e intelligenti, dotati di senso critico e istinto di sopravvivenza, capaci di pescare e di citare Platone, di scalare pareti rocciose e di parlare l’esperanto, ma del tutto impreparati ad affrontare il mondo civilizzato in tutti i suoi aspetti. Si potrebbe discutere per ore sull’impatto che ha la società sull’individuo e sulle sue capacità, ma fin dall’inizio del film è chiaro che non c’è che una possibilità per sopravvivere davvero: il compromesso. E se questo è basato non sull’arrendevolezza ma sul desiderio di espandere le proprie esperienze, soprattutto affettive ed emotive, allora non vi è nulla di vile, anzi. Capitan Fantastic è un personaggio davvero complesso e viscerale, molto ben rappresentato da Viggo Mortensen, che riesce ad apparire a tratti come un supereroe e a tratti come un mostro che maltratta i figli. Il film si lascia guardare, gli attori, anche i giovanissimi, sono bravi, l’idea è intrigante, ma l’inevitabile finale non giunge come una sorpresa. La totale estraneità della famiglia di Ben ad ogni convenzione sociale rende difficile l’empatia con i protagonisti ma spinge alla riflessione e all’autoanalisi, cosa che per un film non è mai negativa.

Voto: 2 Muffin