Chris Hemsworth: Un memorabile viaggio on the road

So cosa state pensando: Madame si sorbirebbe qualunque idiozia che abbia dentro Chris Hemsworth. Vero. Infatti, dopo le sue peripezie alla ricerca di squali, sto aspettando con trepidazione Chris Hemsworth fa la fila in posta, Chris Hemsworth prepara le uova strapazzate e Chris Hemsworth sceglie il dentifricio. A questo pensavo, leggendo il titolo italiano di questo speciale di National Geographic. ma la traduzione italiana perde una sfumatura che è essenziale per comprendere le motivazioni dietro a questo viaggio di Chris con suo padre: infatti l’originale A road trip to remember, oltre a significare “un viaggio da ricordare” può anche voler dire “un viaggio per ricordare”. Infatti a Craig, il padre di Chris, è stato diagnosticato l’Alzheimer, i cui sintomi iniziano purtroppo a manifestarsi. Purtroppo, ad oggi, non esistono cure per questa malattia degenerativa, ma gli specialisti suggeriscono alcune strategie per rallentarne il decorso, mantenendo il più possibile la persona attiva e stimolata. Questo ha spinto Chris a decidere di partire con il padre per un viaggio non solo negli splendidi paesaggi australiani, ma nel tempo, alla ricerca di luoghi e persone un tempo molto familiari per Craig, che potessero stimolare il più possibile il suo cervello a ricostruire vecchi ricordi.

Per Chris si tratta di passare del tempo con il padre, ma c’è dell’altro: anche lui è geneticamente predisposto a sviluppare, nel tempo, la stessa malattia, e non nasconde di essere in ansia anche per il proprio futuro e quello della sua famiglia.

Ricordiamo che Chris è sposato con la splendida attrice Elsa Pataky e che la meravigliosa coppia ha tre figli: India Rose, Sasha e Tristan.

E così padre e figlio, in sella alle loro motociclette (Craig è stato pilota professionista, tra le altre cose), partono verso la casa in cui Chris ha trascorso la sua infanzia, per poi fare tappa in altri luoghi importanti, come il laghetto presso cui era stata scattata la fotografia che si vede in locandina o il luogo in cui Craig lavorava come domatore di bufali (dove tutti lo ricordano affettuosamente come “Chuck Norris”).

Il viaggio è ricco di rimembranze, emozioni, momenti di gioia che si alternano a momenti di ansia per il futuro, ma non diventa mai eccessivamente patetico o angosciante, rimanendo dilettevole per la sua intera durata.

Una bella occasione, per i fan di Chris, di scoprire qualcosa di più su di lui, sulla sua famiglia e sui luoghi in cui è cresciuto, ma anche una riflessione a livello più generale sul valore della famiglia, delle relazioni e della vita stessa.

Lo trovate su Disney Plus, insieme alle altre avventure di Chris.

Scrúgulus

Qualche volta, strano a dirsi, i social sono utili. Ad esempio, non credo che avrei mai scoperto dell’esistenza di Scrúgulus se non mi fosse comparso su Facebook un post del Professor Andrea Maggi, che avevo visto tante volte nel programma tv condotto da Geppi Cucciari Splendida Cornice.

Il Prof Maggi ha infatti scritto la prefazione di Scrúgulus e sul suo profilo lo stava appunto pubblicizzando.

Ma che cos’è Scrúgulus?

Sapevo che il celebre fumetto Topolino da qualche tempo stava proponendo alcune storie tradotte in alcuni dialetti italiani. Quello che non sapevo è che ne avesse preparata anche una… in latino!

Ebbene sì, Scrúgulus è una storia a fumetti bilingue, latino (a colori) e italiano (in bianco e nero) a fronte; per cui non tema chi non è familiare con il latino, ogni pagina è doppia e la storia può essere letta facilmente in entrambi gli idiomi.

Ma da dove deriva questo strano titolo, Scrúgulus?

Non è altro che la traduzione in latino del nome originale inglese di Paperon de’ Paperoni, ovvero Scrooge, come il protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens.

Infatti una delle cose più divertente è proprio scoprire come sono stati tradotti in latino i nomi propri dei personaggi. Ad esempio, Paperino è Donaldum Anas (Donald Duck), mentre Rockerduck e King Kong… li lascio scoprire a voi!

Un’altra cosa divertentissima è leggere come sono state rese in latino le invenzioni moderne, come l’automobile, il telefono… e soprattutto il macchinario di Archimede!

Mi unisco perciò al Professor Maggi nell’invitare tutti a correre in libreria per acquistare Scrúgulus.

Anche per i bambini e per chi non conosce il latino, perché la storia è molto divertente.

Chi invece pensava di aver dimenticato tutto il latino imparato a scuola o all’università, scoprirà che invece è la storia è molto facile da seguire.

Altro che trattati di Cicerone e poesie di Orazio, se al liceo l’avessimo studiato sui fumetti, ora sì che lo conosceremmo bene il latino! Altro che lingua morta…

Mythos, Heroes, Troy, Odissey di Stephen Fry

Stephen Fry. Attore inglese, in Italia non conosciuto come in patria, un po’ perchè ha lavorato moltissimo in tv, oltre che al cinema, un po’ a causa del suo humor così smaccatamente british che forse non sempre ottiene grande successo oltremanica.

Scorrendo la sua filmografia il ruolo che ritorna più spesso è “narratore”, e infatti Stephen Fry ha una voce perfetta proprio per raccontare storie. Non per niente è stato scelto come lettore per la serie degli audiobook di Harry Potter in versione originale, e come voce della stessa Guida Galattica per Autostoppisti nel film tratto dai romanzi di Douglas Adams.

Come attore, per me rimarrà sempre indissolubilmente alla figura di Oscar Wilde, che ha interpretato nel 1997 nella biografia dello scrittore irlandese. Una parte piccola ma molto intensa anche in V per Vendetta, a fianco di Natalie Portman. Più recentemente, lo abbiamo visto nel ruolo di Mycroft, il fratello di Sherlock Holmes nel film Gioco di Ombre con Robert Downey Jr. e Jude Law. Ancora più recentemente, nel film Rosso, Bianco e Sangue Blu, è stato scelto addirittura per interpretare il re d’Inghilterra…

Ma la sua apparizione più divertente appartiene sicuramente al programma automobilistico Top Gear: vedere per credere!

Quello che però ho scoperto più recentemente è che Stephen Fry, oltre che attore, doppiatore e regista, è anche scrittore: come potevo non gettarmi a capofitto nella lettura di… beh, qualunque cosa avesse scritto?

Ancora però non sapevo che Stephen avesse affrontato un argomento affascinante e complesso come la mitologia greca in modo così onnicomprensivo, trattandolo in ben 4 volumi: Mythos, Heroes, Troy e Odissey

Io però, ancora ignara di ciò, ho iniziato con Odissey, essendo personalmente molto legata alla storia di Ulisse, che Papà Verdurin mi raccontava (non leggeva) spesso quando ero piccola.

Mi sono innamorata del modo in cui Stephen racconta una storia già nota, rendendola scorrevole e accattivante, ma soprattutto divertente. Questo però senza prescindere da un immenso lavoro di studio e documentazione sull’argomento, che prevede lo studio del greco antico e di tutta la saggistica pertinente. Le note a piè di pagina, infatti, sono la parte più interessante, ma anche quella più divertente, perchè l’autore si diverte a nasconderci richiami alla contemporaneità e osservazioni argute.

Terminato Odissey ho recuperato l’ordine cronologico corretto, leggendo Mythos, che racconta della nascita e l’insediamento delle divinità dell’Olimpo, seguito a ruota da Heroes, che narra le gesta degli eroi semidivini come Ercole, e infine Troy, che parla naturalmente della guerra di Troia e dei suoi molti protagonisti.

Un viaggio straordinario, affascinante, arricchente e divertente in quella che perde tutto dello “scolastico” e diventa un piacere e una gioia per la mente.

Consiglio la lettura a chiunque ami la mitologia greca, anche a chi non la conosce bene, perchè Stephen Fry è molto scrupoloso nel raccontare ogni evento, anche i più noti, senza dare mai nulla per scontato; inoltre lo consiglio a chi ama lo humor britannico, perché troverà dialoghi e osservazioni esilaranti; infine lo consiglio a chiunque ami la lettura, perché le pagine scorrono via come una tazza di tè caldo in un pomeriggio invernale.

Se possibile, consiglio la lingua originale, per non perdere nulla della piacevolezza della lingua utilizzata da Stephen Fry.

The Bee Sting

Quest’estate ho voluto seguire il consiglio della mamma dell’amico e collega blogger (cit.) Lucius Etruscus e leggere il libro Il Giorno dell’Ape dello scrittore irlandese Paul Murray, vincitore del premio Strega Internazionale 2025 (riconoscimento di cui ignoravo l’esistenza). Recuperata un’edizione in lingua originale mi sono tuffata nella lettura di The Bee Sting (letteralmente “La Puntura d’Ape”) senza lasciarmi spaventare dalla lunghezza (oltre 600 pagine!) perchè mamma etrusca mi aveva assicurato che sarebbe stata una lettura appassionante. E lo è stata, eccome se lo è stata!

The Bee Sting racconta un periodo della vita dei membri della famiglia Barnes: il padre Dickie, la mamma Imelda, la figlia Cassie e il figlio PJ. Ciascuno dei quattro protagonisti ha una serie di capitoli a lui dedicati, in cui racconta in prima persona i suoi problemi e la sua visione delle cose. Man mano che la narrazione procede, anche grazie a diversi flashback, ci rendiamo conto di quante difficoltà, non solo economiche, la famiglia Barnes si trovi ad affrontare, e di quanti segreti e bugie ciascuno tenga celati agli occhi degli altri, fino a giungere ad un finale teso, aperto, potenzialmente catastrofico.

Ho ammirato profondamente l’abilità narrativa di Paul Murray, che riesce a rendere anche eventi apparentemente insignificanti coinvolgenti per il lettore come lo sono per i personaggi.

La sua scelta coraggiosa di modificare lo stile e il linguaggio in base al personaggio che offre il suo punto di vista si rivela vincente grazie alla sua abilità nel padroneggiare diversi registri, diversi lessici e diverse sintassi, portando il lettore a immedesimarsi completamente in ciascun personaggio narrante.

Il modo in cui i diversi fili narrativi si intrecciano costruisce un arazzo complesso di rapporti, incomprensioni, menzogne e sentimenti sempre in divenire, credibile e coinvolgente, interessante e sorprendente.

Una volta iniziata non sono più riuscita a fermarmi, del tutto catturata dalla narrazione fluida, lo stile perfetto e la vicenda intrigante, colma non solo di eventi ma anche di spunti di riflessione potenti e universali.

Consiglio caldamente questo libro, possibilmente nella sua lingua originale per apprezzare fino in fondo la bravura di Paul Murray.

Ringrazio di cuore mamma Angela e Lucius Etruscus per avermi fatto scoprire questo gioiello della letteratura contemporanea.

Interior Chinatown

Anno: 2024

Regia: Taika Waititi e altri

Dove trovarlo: Disney Plus

Il giovane Willis Wu (Jimmy O. Yang) lavora come cameriere nel ristorante cinese dello zio, il Golden Palace, e tutta la sua vita si svolge nel quartiere di Chinatown, tra vecchi genitori e vecchi amici, senza che accada mai nulla di speciale. Finchè un giorno incontra una detective della polizia che gli chiede di aiutarla in un’indagine complicata: scoprire la verità sulla morte di Johnny (Chris Pang), fratello di Willis, misteriosamente scomparso dodici anni prima.

Cosa fare quando ci si imbatte in Taika Waititi? Il regista che ci ha regalato capolavori (Jojo Rabbit), film divertenti (Thor – Ragnarok, Chi Segna Vince) e scempiaggini senza appello (Thor – Love and Thunder)? La serie Interior Chinatown non è ascrivibile a nessuna di queste categorie, anche perchè è molto disomogenea: parte con una paio di puntate (di cui la prima diretta dallo stesso Waititi) simpatiche, che divertono e incuriosiscono, ma prosegue deragliando verso una svolta complottistica e un finale aperto in cui nessuno dei molti (troppi) spunti viene chiarito o portato a compimento. Troppe idee e molto confuse fagocitano anche le trovate più riuscite (come l’esilarante “cameriere cattivo”) in un guazzabuglio di kung fu, spionaggio, crime, metafiction e tanto altro senza capo né coda.

Non è nociva né tossica, e sinceramente non so se, con premesse così variegate e confuse, avesse qualche possibilità di riuscire bene, ma di sicuro la visione non lascia soddisfatti.

Mi auguro che il finale aperto non preluda a una nuova stagione: archivierei questo esperimento narrativo con un “meh” e andrei avanti.

Asterix e Obelix: Il Duello dei Capi

Titolo originale: Astérix & Obélix : Le Combat des Chefs

Anno: 2025

Regia: Alain Chabat

Dove trovarlo: Netflix

L’impero romano guidato da Giulio Cesare ormai controlla tutta la Gallia. Tutta? Non proprio. Rimane infatti un villaggio di irriducibili che non si lasciano sottomettere dalle truppe romane. Non riuscendo ad avere ragione dei Galli con la forza, i romani decidono di usare l’astuzia e appellarsi all’antica usanza gallica del Duello dei Capi, in cui due capi villaggio si affrontano in un combattimento fisico e il vincitore ottiene la sovranità su entrambi i popoli. Nessuna paura per i nostri eroi, che sanno di poter contare sulla pozione magica preparata dal loro saggio druido Panoramix, che dona forza sovrumana a chiunque la beva… E se invece il druido fosse fuori combattimento (oltre che fuori di testa) a causa di un colpo di menhir?

Erano molti anni che non mi divertivo così tanto con un’opera d’animazione tratto dai meravigliosi fumetti di René Goscinny e Albert Uderzo, direi dalla visione durante l’infanzia dell’insuperato Le Dodici Fatiche di Asterix (1976). La moda del momento e le politiche di Netflix, che produce, hanno imposto che Asterix e Obelix: La Guerra dei Capi fosse una miniserie di 5 brevissime puntate anziché un lungometraggio, ma questo non toglie il fatto che la serie sia ricca di ironia, battute esilaranti e trovate divertenti e fresche. Inoltre, per chi come me è cresciuto tra le pagine dei fumetti e i film che ne sono stati tratti, tornare in quel piccolo villaggio gallico è sempre un po’ come tornare a casa.

Adatto a tutti, grandi e piccini, che conoscano bene il mondo di Asterix o che ci si approccino per la prima volta.

Mi raccomando, seguite sempre la catena del tiepido!

Mid-Century Modern

L’improvvisa morte di un loro carissimo amico fa decidere ai tre amici omosessuali Bunny (Nathan Lane), Arthur (Nathan Lee Graham) e Jerry (Matt Bomer) di andare a vivere tutti assieme in una lussuosa villa di Palm Springs per non essere mai più soli.

“Mid-Century Modern” è un termine che si usa per indicare l’arredamento lineare e modernista diffuso in particolare negli Stati Uniti tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 e ritornato oggi di gran moda. Questo stile architettonico e decorativo elegante e minimale ha attecchito in particolar modo nella ricca Palm Springs, in California, in cui sono presenti moltissime ville in stile Mid-Modern Century. Da questo deriva il titolo di questa serie tv di una sola stagione, in tutto dieci episodi, disponibile su Disney Plus.

Non posso dire che Mid-Modern Century sia una serie per tutti: Disney Plus avverte che il contenuto contiene “discriminazioni”, ma non saprei dire se si riferisca agli omosessuali, ritratti in modo assai sguaiato e appariscente, oppure agli uomini eterosessuali, che invece sono del tutto assenti dalla narrazione e in più occasioni derisi e scherniti.

Non appartenendo a nessuna delle due categorie, posso solo dire che questa serie, prodotta tra gli altri da quel Ryan Murphy che ha regalato al mondo la meravigliosa serie Glee, mi ha divertito moltissimo.

Mid-Modern Century è un prodotto leggero, una sitcom divertente senza pretese con l’unico intento di divertire, e con me la formula ha funzionato in pieno.

Il mattatore è senza dubbio Nathan Lane, star indiscussa del cinema e del teatro, attore e cantante di grande talento e dalla simpatia irrefrenabile.

Al suo fianco un esilarante Nathan Lee Graham e un divertente quanto affascinante Matt Bomer; il terzetto di attori e personaggi è molto ben calibrato e affiatato, e dà vita a dialoghi, battute e siparietti davvero spassosi (non potrò mai più riempire un portapillole senza cantare il Cell Block Tango di Chicago).

Affiancano i tre protagonisti alcuni altri volti noti della tv (Jesse Tyler Ferguson, Richard Kind) e, nei panni di Sybil, la madre di Bunny, la talentuosa attrice e cantante Linda Lavin, scomparsa durante le riprese (forse per questo motivo la serie non ha avuto un maggior numero di puntate o una seconda stagione).

Se amate i musical, le piume di struzzo e le paillettes, questa serie fa sicuramente per voi, ma in caso contrario non credo che la trovereste di vostro gradimento.

Non credo serva aggiungere altro

Only Murders in the Building – Stagione 4

Nella puntata conclusiva delle terza stagione avevamo visto Saz Pataki (Jane Lynch) venire uccisa da un colpo di fucile (Steve Martin). La quarta stagione si apre quindi con la preoccupazione di Charles per l’amica scomparsa, ma soprattutto con l’invito per lui e i suoi due colleghi di podcast Oliver (Martin Short) e Mabel (Selena Gomez) a recarsi ad Hollywood, dove la Paramount ha intenzione di girare un film tratto proprio dal loro podcast Only Murders in the Building.
Arrivati alla quarta stagione (che Disney Plus aveva tentato di farmi vedere un episodio alla settimana alcuni mesi orsono)  non si può negare che la formula indagine + star + siparietti comici nostalgici inizi a non funzionare più così bene. Il delitto da risolvere continua a rimanere tutto sommato marginale rispetto alle vicissitudini dei protagonisti, sempre più surreali e sconclusionate. La parata di stelle a ricoprire ruoli grandi e piccoli (Meryl Streep, Paul Rudd, Eugene Levy, Zach Galifianakis, Eva Longoria, Melissa McCarthy) non aiuta a recuperare la verve delle prime stagioni e la serie procede in modo faticoso e farraginoso per i dieci episodi. Personalmente, l’unico volto famoso che ho visto davvero volentieri, anche se per pochi minuti, è stato quello di Ron Howard. Tutte le altre celebrità interpretano ruoli sopra le righe, parodistici e sconclusionati, che non aiutano una storia già di per sé poco chiara, raccontata a forza di flashback nel tentativo di tappare i buchi, che però fallisce, così come anche la velleità di trovare un filo conduttore a partire dalla primissima stagione. Non si ride, non ci si emoziona, non ci si incuriosisce in questa sarabanda di scene surreali, slapstick e ingiustificate che ha chiaramente deragliato dai binari. Anche i riferimenti al teatro che tanto amavo sono quasi del tutto scomparsi. Restano molte citazioni cinematografiche (imprescindibili visto che la stagione è ambientata nel mondo del cinema) didascaliche e fini e sé stesse. Sono arrivata alla fine con grande fatica e rimasta quasi dispiaciuta per il finale di questa quarta stagione che ne annuncia inequivocabilmente anche una quinta in arrivo: non era meglio finirla qui? Anzi, meglio ancora, una stagione fa?

Eva Longoria / Selena Gomez; Eugene Levy / Steve Martin; Martin Short / Zach Galifianakis

Stanley Tucci in Italy

L’autobiografia di Stanley Tucci mi aveva lasciato, oltre all’acquolina in bocca, anche una gran curiosità riguardo la serie tv Stanley Tucci: Searching for Italy, che finalmente ora è disponibile (anche se solo la prima stagione per ora) su Disney Plus.

In cinque puntate il celebre attore americano di origini calabresi esplora altrettante regioni italiane (Toscana, Trentino, Lombardia, Abruzzo, Lazio) alla ricerca, oltre che dei paesaggi e luoghi più suggestivi, anche della cucina più tradizionale e dei piatti invece più insoliti e particolari.

Diciamo che il programma è interessante all’incirca come una puntata di Melaverde, e che se io non avessi letto nell’autobiografia di Tucci cosa significhi esattamente il cibo per lui e la sua famiglia potrei bollare la serie come “noiosetta”. Oltretutto sembra che io e Stanley abbiamo gusti estremamente diversi: di sicuro non condivido la sua passione per le interiora e le frattaglie di qualunque tipo.

La serie resta carina e con alcune curiosità interessanti sul nostro bel paese, ma se devo essere sincera a “Stanley Tucci che mangia cose” preferisco di gran lunga “James May che prova cose” o “Jeff Goldblum che guarda cose”.

Justified | Justified – City Primeval

Anno: 2010 – 2015 (6 stagioni) | 2023 (1 stagione)

Interpreti: Timothy Olyphant, Walton Goggins, Nick Searcy, Joelle Carter, Jacob Pitts, Erica Tazel, Natalie Zea, Jere Burns, Raymond J. Barry

Dove trovarli: Disney Plus

Protagonista indiscusso della serie è Raylan Givens (Timothy Olyphant), U.S. Marshal dal grilletto facile che, dopo aver eliminato l’ennesimo boss del crimine, viene mandato a prestare i suoi servigi nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto mettere di nuovo piede: Harlan, Kentucky, sua città natale.

Lo ammetto: è stato il cappello. Quello Stetson che lo US Marshal (traducibile con “sceriffo degli Stati Uniti”) non toglie mai e che già dalla locandina della serie mi faceva venire una gran voglia di western moderno. E non sono stata delusa. Se quello che ci racconta la serie Justified (basata sul romanzo di Elmore Leonard Fire in the Hole) è almeno in parte vero, c’è una vasta porzione del Kentucky che sembra davvero il selvaggio west che abbiamo visto in tanti vecchi film, in cui tutti sono armati e tutti nascondono qualcosa di losco e illegale in cantina o dietro casa. Ma per Raylan Givens l’intero territorio statunitense è un O.K. Corral in cui al cattivo si può sparare: se lui ha estratto la pistola per primo ma tu sei stato più abile e svelto, allora l’omicidio è “giustificato” (da cui il titolo). Ma il numero di uccisioni giustificate di Raylan è cresciuto a dismisura, e i suoi capi, coscienti della sua grande abilità e incorruttibile integrità, lo spostano da uno Stato all’altro finché ne rimane solo uno: il Kentucky, in cui Raylan è cresciuto e in cui si trovano ancora la sua famiglia, la sua ex moglie, le sue vecchie fiamme, i suoi amici, ma soprattutto i suoi nemici. 

Questa è la premessa di una serie che ho adorato dall’inizio alla fine per così tanti motivi che l’elenco sarà lungo, a differenza della durata percepita della serie: sei stagioni che sono sembrate una sola. All’inizio veniva raccontato un caso diverso in ogni puntata, e ciascuno di essi era pensato e scritto benissimo, ma presto gli autori hanno scelto di concentrarsi piuttosto su una storia principale, inserendo un nuovo “cattivo” in ogni serie come avversario di Raylan, e a mio parere la scelta è stata molto soddisfacente. Raylan Givens è un personaggio solo all’apparenza repulsivo per lo spettatore: troppo bello, troppo bravo, troppo pieno di sé; ma in realtà ci si affeziona subito sia alla sua integrità, così fuori posto in un contesto simile, alla sua grande sagacia e al suo umorismo. Ma naturalmente un personaggio così non potrebbe funzionare senza una serie di spalle adeguate, e qui entrano in gioco gli attori secondari, tutti bravissimi. E soprattutto dobbiamo parlare dei cattivi, che sono tutti diversi e tutti efficaci, ma su tutti troneggia la nemesi del protagonista, amico di gioventù e suo pari per fascino e astuzia: Boyd Crowder, interpretato magistralmente da Walton Goggins, la vera arma segreta della serie. L’eterno scontro tra Raylan e Boyd è coinvolgente e intrigante dall’inizio alla fine e dà vita ai dialoghi più sfiziosi.

Infatti un altro grande punto di forza di questa serie sono la sceneggiatura, originale e solidissima, e i dialoghi, elaborati ma mai noiosi, anzi sorprendenti.

Un’altra cosa che ho amato moltissimo è stata l’ambientazione così particolare: il profondo Kentucky, terra selvaggia e variegata, ricca di miniere di carbone in cui si sviluppano legami profondi quanto la terra che viene scavata, di campi coltivati su cui è meglio non indagare e di zone comandate da questa o da quella famiglia da cui è meglio stare alla larga.

Inevitabile quindi che questo reticolato di alleanze, rivalità e giochi di potere crei un tessuto meraviglioso in cui far sviluppare delle storie avvincenti.

Nel 2023 è stata realizzata una nuova stagione, Justified – City Primeval (“Città Primordiale”), che pur non avendo grossi difetti mancava di molti dei punti di forza delle sei stagioni precedenti: cattivi davvero memorabili, comprimari adeguati e un’ambientazione succosa (a Detroit succede di tutto, questo è certo, ma non è particolare come Harlan, Kentucky).

Inoltre le prime sei stagioni erano impreziosite dalla partecipazione di alcune grandi star della tv in ruoli più o meno corposi ma sempre rilevanti: Danielle Panabaker, Sam Shepard, Jim Beaver, David Koechner e a sorpresa il mio beniamino Patton Oswalt, oltre a molti altri.

In conclusione, consiglio senza ombra di dubbio la serie Justified (rigorosamente in lingua originale, magari aiutandosi con i sottotitoli perchè alcune parlate e alcuni termini non sono facili da capire): City Primeval non è altrettanto bella ma si guarda con piacere (anche grazie alla durata di soli 8 episodi) e ha una conclusione che lascia del tutto soddisfatti.

Fire in the hole!