The Adam Project

Anno: 2022

Regia: Shawn Levy

Interpreti: Ryan Reynolds, Walker Scobell, Mark Ruffalo, Zoe Saldana, Jennifer Garner, Catherine Keener

Dove trovarlo: Netflix

Il piccolo Adam (Walker Scobell) è orfano di padre, così quando la mamma (Jennifer Garner) esce per andare al lavoro o a un appuntamento lui rimane solo in casa. Una notte Adam sente degli strani rumori in giardino e improvvisamente un estraneo entra in casa; lo sconosciuto (Ryan Reynolds) non sembra però avere intenzioni ostili, anche se stranamente sembra conoscere benissimo Adam, la sua casa e la sua famiglia. Questo perché, spiega l’estraneo, lui non è altri che lo stesso Adam, venuto dal futuro, che ha bisogno dell’aiuto della versione più giovane di se stesso per sventare una terribile minaccia per il mondo intero…

Il genere fantascienza nella sua espressione più alta, a lungo (e a torto) considerato “minore”, ha da sempre posto grandi sfide ai suoi realizzatori, sempre alla ricerca delle soluzioni visive e tecnologiche più sorprendenti, e ai suoi fruitori, sempre coinvolti in dilemmi morali e quesiti intellettuali e filosofici da risolvere contestualmente alla visione. Ecco perché oggi, con una così corposa serie di illustri antecedenti e una tecnologia ormai consolidata per gli effetti speciali, quando esce un nuovo film appartenente al genere fantascientifico la prima domanda che ci si pone è: “Perché?” Le risposte sono varie e ciascuna a suo modo valida: “Per lanciare un messaggio” (Midnight Sky); “Per vendere le t-shirt” (Star Wars); “Per ridere!” (Galaxy Quest). In ogni caso una risposta va trovata. Nel caso di The Adam Project la risposta è: “Per ricordarti di abbracciare la mamma”.

Questo film infatti, che ha dalla sua parte un cast di forte richiamo (compresa una ritrovata Catherine Keener cui il ringiovanimento in CGI non rende giustizia) e dei buoni effetti speciali, manca tuttavia di una vera ragione d’essere. Non avendo un vero messaggio da lanciare, nè alcuna implicazione filosofica, non rientra neppure nel campo dell’intrattenimento per famiglie a causa dell’eccessiva verbosità e lunghezza di molte scene, della mancanza di solidità e approfondimento nella trama, e soprattutto della melensaggine e melodrammaticità di tutte le dinamiche tra i personaggi nelle diverse coordinate temporali. La rinomata verve di Ryan Reynolds, che aveva funzionato bene nel precedente film diretto da Shawn Levy Free Guy, non è sufficiente a salvare dalla noia di una storia poco appassionante che procede faticosamente verso uno scontatissimo epilogo. Le dinamiche dei viaggi nel tempo, la minaccia del futuro e le necessità di ricorrere all’aiuto della versione più giovane dello stesso protagonista rimangono avvolte nel mistero in una sceneggiatura tanto prolissa nei dialoghi quanto reticente sulle spiegazioni, scientifiche o meno, delle situazioni. Al termine della visione non resta niente se non un senso di fastidio per il tempo perso. E naturalmente un irrazionale ma insopprimibile desiderio di correre ad abbracciare la mamma.

Voto: 1 Muffin

Freaks Out

Anno: 2021

Regia: Gabriele Mainetti

Interpreti: Aurora Giovinazzo, Claudio Santamaria, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Franz Rogowski, Giorgio Tirabassi, Olivier Bony

Dove trovarlo: Netflix

Roma, 1943. Il piccolo Circo Mezzapiotta, guidato con bonaria saggezza da Israel (Giorgio Tirabassi), per i quattro artisti che vi si esibiscono è tutto: lavoro, casa e famiglia. Fulvio (Claudio Santamaria), uomo completamente ricoperto di pelo e dalla forza straordinaria; Mario (Giancarlo Martini), il nano che può comandare a suo piacimento il metallo; Cencio (Pietro Castellitto), ragazzo albino in grado di comandare gli animali; e infine Matilde (Aurora Giovinazzo), l’unica “normale” (anzi bellissima) nell’aspetto ma che può sprigionare dal suo corpo grandi quantità di energia elettrica: questa è la stramba famiglia del Circo Mezzapiotta. A causa della guerra gli affari però vanno sempre peggio, così Israel si allontana, portando con sé tutto il denaro del gruppo, per procurare a tutti un biglietto per l’America. Quando Israel non fa ritorno, i “mostri” dapprima lo rinnegano, convinti del suo tradimento; poi però si mettono sulle sue tracce, temendo che sia stato preso dai Nazisti e deportato insieme agli altri ebrei. Ma mentre i “freaks” cercano Israel, qualcuno sta cercando loro: il crudele e megalomane nazista Franz (Franz Rogowski), che nelle sue visioni allucinate del futuro ha visto come i quattro, con i loro eccezionali poteri, potrebbero determinare le sorti della guerra…

Dopo il grande e meritato successo del suo film d’esordio Lo Chiamavano Jeeg Robot, il regista Gabriele Mainetti riesce non solo a dimostrarsi all’altezza delle enormi aspettative per la sua opera seconda, ma anche ad alzare ulteriormente il tiro e dar vita, ancora una volta, a qualcosa di completamente alieno nel panorama del cinema italiano contemporaneo.

Freaks Out si inserisce infatti nel genere fantastico, così poco frequentato dalla nostra cinematografia, e lo fa utilizzando scenografie, costumi ed effetti speciali che nulla hanno da invidiare ai film americani cui siamo abituati. L’utilizzo da parte degli interpreti della parlata romanesca sembra strano all’inizio, abituati come siamo ai nostri doppiatori dalla dizione perfetta, ma si rivela molto efficace nel conferire realismo al contesto e ai personaggi, rimanendo sempre perfettamente comprensibile per lo spettatore. L’intero cast recita benissimo e dà vita a dei personaggi che difficilmente si dimenticano. Claudio Santamaria, già protagonista in Lo Chiamavano Jeeg Robot, riesce a non scomparire dentro la pelliccia di Fulvio e a caratterizzare bene il suo personaggio; Giancarlo Martini offre grande simpatia con il suo nano Mario; Pietro Castellitto rende vitale il suo Cencio, volubile e solo apparentemente cinico e spavaldo; Giorgio Tirabassi nelle sue poche scene riesce a far capire come il suo Isreal possa essere un punto di riferimento imprescindibile per la strana famiglia Mezzapiotta; ma la vera luce del film è Aurora Giovinazzo, bella e brava, che ricopre con disinvoltura il ruolo più complesso del film. Freaks Out è una favola, che parte dalla realtà della storia d’Italia per costruire un mondo fantastico, abitato da supereroi e supercattivi crudeli e megalomani: l’unico ruolo raccontato con un po’ troppa enfasi è proprio quello del villain nazista Franz, con le eccessive lungaggini dei suoi deliri allucinati, ma non era facile rappresentare il male assoluto, incarnato in questo caso proprio dai nazisti. Una scelta diversa e coraggiosa viene invece compiuta nei riguardi dei partigiani italiani, mostrati forse per la prima volta nella loro umanità, con difetti e debolezze, che alla fine però non impediscono loro di compiere la scelta giusta e diventare eroi al servizio del bene, e anzi dà ancora più importanza al loro gesto. Se da una parte Mainetti richiama senza dubbio il cinema di Quentin Tarantino e la sua visione alternativa della storia (Bastardi senza Gloria in particolare), dall’altra nel rappresentare il potere nazista l’iconografia è quella del Grande Dittatore di Charlie Chaplin (con tanto di pallone-mondo) ma anche di Per Favore non Toccate le Vecchiette (e il remake The Producers) di Mel Brooks, con il suo assurdo e sgargiante musical Springtime for Hitler (a sinistra nell’immagine) di cui ho rivisto moltissimo nel grande circo nazista di Freaks Out (a destra nell’immagine). Omaggi e citazioni graditi e non fini a se stessi, io credo, ma che restituiscono con stile la complessità che ancora sussiste nel raccontare il periodo storico della Seconda Guerra Mondiale, anche al cinema, qualunque genere si scelga come veicolo.

Concludo con una nota personale, visto che ho la grande fortuna di conoscere personalmente uno degli stuntman che ha lavorato a Freaks Out: complimenti a tutto il comparto tecnico e a tutte le maestranze per la grande qualità di questo film, che testimonia come in Italia si possano fare ottimi film diversi per genere, ambientazione e complessità.

Si ride, si piange, ci si emoziona e all’uscita si può raccontare ai bambini come favola della buonanotte: per me un risultato davvero eccellente.

Voto: 4 Muffin 

Spiderman – No Way Home

Anno: 2022

Regia: Jon Watts

Interpreti: Tom Holland, Zendaya, Benedict Cumberbatch, Marisa Tomei, Jon Favreu, Willem Dafoe, Tobey Maguire, Andrew Garfield, Alfred Molina, Jamie Foxx, Rhys Ifans, Charlie Cox, J.K. Simmons

Dove trovarlo: Disney Plus

Dopo che il villain Mysterio (Jake Gyllenhaal) ha svelato al mondo la sua identità segreta, Spiderman/Peter Parker (Tom Holland) capisce ben presto che questa inaspettata celebrità sta rovinando non solo la sua vita ma anche quella di chi gli vuole bene. Si rivolge quindi al potente Doctor Strange (Benedict Cumberbatch) chiedendogli di cancellare la memoria di tutti coloro che conoscono il suo segreto. Ma qualcosa nell’incantesimo va storto e da diversi mondi paralleli arrivano temibili super-criminali desiderosi di distruggere Spiderman. Ma dal Multiverso, per fortuna, giunge anche un aiuto (anzi due) davvero inaspettato…

Ho già raccontato di quanto io ami il primo film che il regista Sam Raimi ha realizzato, nel lontano 2002, sull’Uomo Ragno, tanto lontano dai fumetti quanto narratologicamente efficace e molto piacevole da vedere. Non c’è quindi da stupirsi se questa nuova avventura del nostro amichevole Spiderman di quartiere mi ha incuriosito: per fortuna il film non delude le aspettative dei fan nostalgici e allo stesso tempo non si inceppa mai nel ritmo né nella trama, coinvolgente e credibile quanto può esserlo quella di un film di supereroi Marvel.

 Jon Watts, già regista dei primi due capitoli (entrambi ben fatti) della nuova saga con il bravo e simpatico Tom Holland nei panni dell’Uomo Ragno, gioca al rialzo in questa terza avventura, supportato dalla straordinaria partecipazione di attori dei precedenti film su Spiderman. Tornano infatti Tobey Maguire e Andrew Garfield, che interpretano Spiderman appartenenti ad altre dimensioni del Multiverso, e la collaborazione tra i tre è davvero una gioia per lo spirito; allo stesso modo fanno ritorno i supercattivi del passato Willem Dafoe/Goblin, Alfred Molina/Dr. Octopus, Jamie Foxx/Elektro e altri.

 Tornano anche tanti personaggi dei precedenti film e serie tv… insomma i fan dei supereroi e di Spiderman in particolare non possono restare indifferenti davanti a questa eccitante e commovente reunion, non forzata ma anzi perfettamente integrata e funzionale alla trama.    Unica piccola delusione è che l’ormai immancabile scena post titoli di coda altro non è altro che un trailer del prossimo film Marvel (in senso letterale) anziché la solita scenetta realizzata ad hoc.  

 Divertente, commovente, cadenzato, necessario (ormai lo sappiamo) per potersi godere appieno le prossime avventure dei supereroi Marvel, sempre più densamente intrecciate tra loro, e per questo molto più godibile se si sono visti i film e le serie antecedenti.

Voto: 3 Muffin

Tre amichevoli Spiderman di quartiere

Dark Shadows

Anno: 2012

Regia: Tim Burton

Interpreti: Johnny Depp, Eva Green, Helena Bonham Carter, Michelle Pfeiffer, Cloë Grace Moretz, Christopher Lee, Alice Cooper

Dove trovarlo: Netflix

Il giovane rampollo di una ricca famiglia del Maine, Barnabas Collins(Johnny Depp), innamoratosi della bella Josette (Bella Heathcote) respinge l’ex amante Angelique; peccato per lui che Angelique (Eva Green) sia una potente strega, che per vendicarsi di lui spinge al suicidio Josette e poi trasforma Barnabas in un vampiro, seppellendolo infine in una bara perché possa vivere in eterna oscurità e solitudine. Barnabas però viene liberato due secoli dopo e decide di riprendere a gestire gli affari della bizzarra e disfunzionale famiglia Collins; ma anche Angelique è ancora viva e ancora più potente, e non ha accantonato il suo desiderio di vendetta…

Non ho dubbi: Dark Shadows, fino ad oggi, è il peggiore film di Tim Burton. Tratto da una serie tv degli anni ‘60, sulla carta il film sembrerebbe avere tutte le carte in regola per essere un nuovo classico burtoniano: atmosfere dark, creature soprannaturali bistrattate e il solito ben rodato cast di tanti successi (Johnny Depp, Helena Bonham Carter e perfino una piccola parte per il mitico Christopher Lee). Cosa manca allora? Per prima cosa, a differenza di tutti i film precedenti del regista, Dark Shadows non è una favola in scala di neri: il protagonista è un personaggio negativo, egoista, edonista e violento, che non ottiene (e non aspira) ad alcuna crescita o redenzione. Non c’è nessuna morale nel finale, nessun viaggio interiore, nessuna acquisizione di consapevolezza per nessun personaggio: il lieto fine ha un sapore amaro perché non è sudato né meritato, e questo lascia lo spettatore insoddisfatto dopo la visione, cosa pressoché inaudita per un’opera di Tim Burton. Manca anche lo spassoso humor nero che da sempre contraddistingue il cinema burtoniano: in Dark Shadows tutti si prendono sempre troppo sul serio, appesantendo la narrazione. Inoltre il film è carico di scene e battute volgari, cosa che non si era mai vista prima e che, a mio avviso, è del tutto gratuita e inappropriata. Sopravvive solamente la critica della società, della sua vacuità e della sua mancanza di valori, che però era stata veicolata già con grande sagacia in tanti film precedenti. Edward Mani di Forbice probabilmente è l’esempio più fulgido di come in passato Tim Burton abbia saputo declinare temi simili con ben altra bravura ed efficacia. Il più recente Sweeney Todd, anch’esso tratto da un soggetto non originale (il musical di Stephen Sondheim), è un’altra prova di come Tim Burton sia stato in grado in passato di dare vita a favole cupe ma anche sagge e divertenti, che hanno i loro pilastri in interpreti validi come appunto Johnny Depp ed Helena Bonham Carter. Riassumendo, sconsiglio decisamente la visione, soprattutto a chi, come me, è da sempre un estimatore del cinema di Tim Burton: è preferibile recuperare i suoi classici successi e tenersi ben alla larga di Dark Shadows.

Voto: 1 Muffin ipocalorico

Il Potere del Cane

Titolo originale: Power of the Dog

Anno: 2021

Regia: Jane Campion

Interpreti: Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee

Dove trovarlo: Netflix

Phil Burbank (Benedict Cumberbatch) è un cowboy esperto, cinico e misantropo, che non riesce ad accettare nella sua casa e nella sua vita la nuova moglie del fratello, Rose (Kirsten Dunst) e il figlio adoloscente di lei Peter (Kodi Smit-McPhee) e fa di tutto per impedire loro di sentirsi a casa. Le cose però cambiano quando Phil inizia ad affezionarsi al giovane Peter e  a stringere con lui un rapporto più profondo.

Questo film è stato candidato nel 2022 a ben 12 premi Oscar e al concorso la regista Jane Campion ha vinto la statuetta per la miglior regia. E infatti questo acclamatissimo film targato  Netflix ha nella sua veste formale il suo più grande punto di forza: ogni singolo fotogramma potrebbe diventare un dipinto da quanto è ben curato in ogni aspetto e anche per questo la visione è un piacere per gli occhi; la colonna sonora di Jonny Greenwood accompagna magistralmente questa sinfonia di colori e sfumature dei paesaggi del Montana, dove il film è stato girato. 

Il punto debole invece è la sceneggiatura, curata dalla stessa Campion (che per la sceneggiatura originale di Lezioni di Piano aveva vinto l’Oscar nel 1993) a partire dal romanzo di Thomas Savage, che ho avuto il piacere di leggere e da cui il film non si discosta mai troppo, se non, ed ecco il suo grande difetto, per voler rimarcare e sottolineare in modo ridondante e didascalico la sfaccettature del personaggio di Phil Burbank, il protagonista, che la regista stessa definisce “un grande personaggio della letteratura americana”.

Le contraddizioni di questo cowboy burbero e misantropo, per cui l’amore è un qualcosa di impossibile perché confinato al passato e al segreto, vengono strillate in faccia allo spettatore anziché essere suggerite con delicatezza come avviene nel romanzo. Dove Savage dipinge a piccole pennellate (con la sensibilità di chi ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza di essere un omosessuale in una società dominata dalla mascolinità rude e violenta) Jane Campion usa invece il rullo per comunicare al lettore il disagio e le contraddizioni del suo protagonista, arrivando ad una rappresentazione eccessivamente compiaciuta (il nascondiglio segreto zeppo di fotografie di corpi maschili) e didascalica (nel suo modo di inquadrare Benedict Cumberbatch incorniciato da elementi architettonici come John Ford faceva con il suo John Wayne, a marcare per contrasto la differenza tra quello che Phil sente di dover essere e ciò che invece prova) che rende più difficile l’empatia verso questo personaggio così complesso.

John Wayne in Sentieri Selvaggi e Benedict Cumberbatch in Power of the Dog

Anche il rapporto con il giovane Peter viene raccontato un po’ troppo frettolosamente nella sua evoluzione, togliendo allo spettatore la possibilità di seguirne mano a mano gli sviluppi e, forse, anche la sorpresa del finale, che nel libro arrivava davvero inaspettato e forse nel film no.

Sono comunque da lodare, oltre agli aspetti formali, tutte le interpretazioni: oltre a Benedict Cumberbatch che si destreggia tra sottrazione ed eccessi, anche Kirsten Dunst (sempre splendida) e Jesse Plemons danno il loro meglio nei panni di personaggi un po’ sacrificati dalla sceneggiatura che li lascia troppo sullo sfondo; il giovane Kodi Smit-McPhee recita molto bene il ruolo di Peter, l’unico oltre a Phil che abbia un po’ di spazio per dispiegarsi, anche se le battute che gli vengono assegnate spesso sono funzionali allo sviluppo della trama ma non al personaggio.

Una visione in ogni caso interessante, nel solco dei western atipici, introspettivi e ibridati con altri generi (come I Segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee ma soprattutto I Fratelli Sisters di Jacques Audiard), ma consiglio sentitamente di leggere il romanzo prima di vedere il film, che è disponibile su Netflix insieme a un Dietro le quinte di mezz’ora che poteva essere molto più interessante se non si fosse limitato ad un’intervista generica alla regista.

Voto: 3 Muffin 

Bridgerton 2

Caro Lettore,

la prima stagione della serie Netflix Bridgerton era stata un autentico guilty pleasure che ci aveva intrattenuti piacevolmente tra abiti dai colori sgargianti, gossip, crinoline e amori contrastati, senza darsi pensiero per l’originalità degli intrecci, lo spessore dei personaggi o l’accuratezza storica.

Cosa è dunque cambiato in questa seconda stagione?

La serie si apre con alcuni deliziosi ammiccamenti per il pubblico, giocando sul parallelismo tra la stagione della serie alla stagione della buona società londinese: in entrambi i casi, durante la pausa estiva, l’assenza della voce di Lady Whistledown (la cui voce in lingua originale è quella di Julie Andrews), la misteriosa autrice dei pamphlet di pettegolezzi più amati e temuti di Londra, è stata profondamente sentita.

Nella prima stagione avevamo seguito la combattuta storia d’amore tra Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor) e il duca di Hastings (Regè-Jean Paige, che in questa seconda stagione non appare neppure in un cameo, impegnato, si vocifera, ad allenarsi a reggere tre Vodka-Martini e camminare ancora dritto). In questi nuovi 6 episodi targati Shondaland (la casa di produzione della showrunner Shonda Rhimes) e tratti anch’essi dai romanzi di Julia Quinn, al centro degli eventi troviamo invece Anthony (Jonathan Bailey), il primogenito dell’agiata famiglia Bridgerton (seguito, in ordine anagrafico e alfabetico, da Benedict, Colin, Daphne, Eloise, Francesca, Gregory e Hyacinth), combattuto tra il dovere di scegliere una sposa adeguata e i desideri del cuore.

Ancora una volta veniamo trasportati in un mondo irreale di gonne vaporose, balli composti, clichè romantici e musiche suadenti (imprevedibilmente piacevoli i riarrangiamenti musicali di alcuni successi pop come Material Girl e Wrecking Ball).

E ancora una volta, e questa è la nota più dolente, la regina d’Inghilterra (Golda Rosheuvel) viene sfruttata come deus ex machina per ogni inghippo della trama che gli sceneggiatori non sono in grado di dipanare, intervenendo senza il minimo criterio di coerenza nelle sue motivazioni (non che a una regina sia necessariamente richiesto, ma almeno un abbozzo di profilo psicologico definito sarebbe comunque apprezzato) per benedire o deprecare coppie, distruggere o salvare reputazioni eccetera.

Ma allora cosa distingue, alla fine, questa seconda stagione dalla prima?

Il successo della prima stagione ha garantito un budget sufficiente per la CGI, che è stata utilizzata per creare, pensate, un’ape. Mi domando se non ci fosse un altro modo per mostrare con maggior realismo questo insetto che con la sua puntura provoca la prima volta grande disperazione e la seconda consapevolezza di un sentimento represso ed è quindi funzionale alla trama. Ma non è certo per gli effetti speciali che si inzia a seguire una serie come Bridgerton…

L’assenza del personaggio del duca di Hastings ha creato un grosso buco narrativo, in quanto i suoi addominali scolpiti costituivano un buon 65% della trama della prima stagione. 

Se questo non ti disturba, caro lettore, gettati nella visione a capofitto.

Se invece sei alla ricerca di una ricostruzione storica inappuntabile, interpretazioni eccellenti, personaggi ben costruiti e dialoghi impeccabili, allora quest’autrice ti consiglia di rifuggire Bridgerton in favore di Downton Abbey, per gustare tutto il vero fascino della cara vecchia Inghilterra.

Y – Goodbye Little Yellow Bird

So bene di aver già parlato diverse volte in questo blog di Angela Lansbury, di Agatha Christie e di film gialli, ma poichè oggi Cinemuffin compie 2 anni ritengo giusto festeggiare parlando di qualcosa che mi sta molto a cuore, e naturalmente con una montagna di muffin al cioccolato.

La mia sfrenata passione per i misteri, le indagini e i delitti trova le sue radici nei primissimi anni della mia infanzia. In casa mia si guardava sempre La Signora in Giallo, il telefilm degli anni ’80 e ’90 in cui la scrittrice del Maine Jessica Fletcher, interpretata dalla megagalattica Angela Lansbury, risolveva uno o più omicidi in ogni puntata. All’epoca credevo ancora che tutto ciò che vedevo in televisione fosse reale, e mi stupivo del fatto che, per realizzare quella trasmissione, dovessero ammazzare quantomeno una persona per puntata. Murder She Wrote è ancora oggi un classico imprescindibile in casa mia (il mio figlio più piccolo lo chiama “La Signora Gialla”), nonostante io conosca ormai ogni puntata a memoria provo un gran gusto nel rivederle e trovo sempre qualche nuova chicca, ad esempio la partecipazione di qualche attore famoso (come Leslie Nielsen, James Coburn, George Clooney, Neil Patrick Harris, Brian Cranston, Ricardo Montalban….) che prima non conoscevo (o non era famoso) o qualche riferimento che in passato non avevo saputo cogliere. Per fare un esempio, in una puntata Jessica Fletcher si reca a teatro a vedere uno spettacolo di Steven Sondheim, celebre autore di musical per il quale Angela Lansbury aveva interpretato Mrs. Lovett nella rappresentazione teatrale del suo Sweeney Todd (nel ruolo che poi sarà di Helena Bonham Carter nella versione cinematografica di Tim Burton). Tutto questo ovviamente non mi aveva detto nulla finchè ero piccola, ma poi, quando mi sono appassionata ai musical, mi sono procurata quella versione teatrale di Sweeney Todd, ben sapendo che Angela Lansbury, oltre che una grande attrice, è anche una talentuosissima cantante. La sua Tale as Old as Time, dal film Disney La Bella e la Bestia, in cui dava la voce alla teiera Mrs. Brick, è da sempre uno dei classici dei miei cd home made. Poi le canzoni di Pomi d’Ottone e Manici di Scopa, interpretato sempre da lei. E anche nella Signora in Giallo in alcune occasioni avevo sentito Angela cantare, di solito quando, anziché Jessica Fletcher, interpretava la cugina irlandese Emma, che di mestiere appunto cantava in teatro canzonette orecchiabili come la squisita Goodbye Little Yellow Bird. Insomma, come si capisce Angela Lansbury/Jessica Fletcher è sempre stata una figura iconica per me, l’incarnazione di ciò che avrei voluto diventare da grande: una famosa scrittrice di gialli che con la sua intelligenza contribuisce a sgominare il crimine anche nella realtà. Fu credo più che naturale che io, da adolescente, mi appassionassi ai gialli di Agatha Christie. Lessi anche altri autori, naturalmente, ma nessuno mi dava la stessa soddisfazione. Odiavo Conan Doyle, per esempio, perchè nei gialli di Sherlock Holmes non è mai possibile indovinare il colpevole, mentre in quelli della Christie ci riuscivo (quasi) sempre. Questa grande passione per i gialli sfociò naturalmente anche nell’amore per le parodie cinematografiche dello stesso genere, e ne trovai due particolarmente ben fatte: Invito a Cena con Delitto, del 1976, con David Niven, Maggie Smith, Peter Falk, Peter Sellers, Eileen Brennan, Elsa Lanchester e Truman Capote, e Signori il Delitto è Servito del 1985, con Tim Curry, Christopher Lloyd, Madeline Kahn, Leslie Ann Warren e Eileen Brennan (sì, la stessa attrice in entrambi i film). Ho elencato il cast delle due pellicole per far capire come, già solo da questo, una cinefila come me potesse andare in brodo di giuggiole. I film erano entrambi esilaranti, e li condivisi (a ripetizione) con gli amici, finchè divennero classici del gruppo, citati in continuazione e sviscerati in ogni loro aspetto. Tra i due ci colpiva di più Signori il Delitto è Servito, in originale Clue, ispirato al famoso gioco da tavolo Cluedo, perchè qui la soluzione finale del delitto (nelle sue diverse versioni, per di più) aveva un senso. Iniziai quindi a domandarmi: e se lo organizzassi io un gioco con un delitto da risolvere? Le escape room e le cene con delitto che fioriscono oggi non esistevano ancora, perciò dovetti fare tutto da me. Ci riflettei molto a lungo, poi elaborai una formula e proposi l’idea ai miei amici, che ne furono entusiasti. Era deciso: avremmo fatto un Murder Poo (espressione del film Invito a cena con delitto, che in italiano era diventata “Assassino Party”)! Il giorno di Halloween ci facemmo accompagnare (eravamo ancora tutti minorenni) nella casa di campagna della mia famiglia, che per l’occasione era tutta per noi. Avevo assegnato anticipatamente i personaggi, in modo che ciascuno potesse prepararsi il costume: io ero la cameriera, poi c’erano il cuoco, il maggiordomo, il cugino debosciato, la governante, il giardiniere e l’amica di nobile famiglia. Tutti i personaggi, di cui avevo già scritto la storia, avevano un movente per l’assassinio del ricco e tiranno padrone di casa. A questo punto avremmo estratto a sorte i ruoli di assassino e di complice (dunque anche io, che avevo organizzato il tutto, potevo partecipare, ma non solo, potevo anche essere l’assassina!). Ciascuno doveva avere con sé un’arma, utilizzata per il delitto e utilizzabile, in caso di necessità, anche per altri omicidi) e un oggetto peculiare che doveva essere lasciato sul luogo del delitto. Spettava all’abilità dei giocatori, tutti investigatori tranne assassino e complice, trovare il legame tra l’oggetto e il colpevole. Regole molto semplici, tutto dipendeva ora dalla nostra interpretazione e dalla nostra sagacia. Il gioco fu divertentissimo, assassino e complice stavano decisamente facendola franca ma purtroppo il cadavere del giardiniere, che avevano dovuto togliere di mezzo per non essere smascherati, si rivelò inopportunamente loquace… ciononostante fu un’esperienza meravigliosa, di cui ancora oggi parliamo con piacere e che resta unica, perchè non siamo mai riusciti a ripeterla. Ho organizzato successivamente altre cacce all’assassino o cacce al tesoro, ma nessuna è stata un’immersione così totale e completa, da parte di tutti i partecipanti, in quel mondo di delitti raffinati e garbati che è il mio.

X – Dieci Piccoli Indiani

Quando avevo circa dodici anni ero una lettrice insaziabile e Mamma Verdurin ebbe l’idea di placare il mio appetito introducendomi ad una scrittrice inglese di libri gialli: Agatha Christie. Nacque immediatamente una grande passione che mi portò a leggere, se non tutti, la maggior parte dei suoi libri, compresa la sua corposa autobiografia, e successivamente, neanche a dirlo, a vedere tutti i film che ne erano stati tratti e che continuano ancora oggi a vedere la luce, con risultati, come ho già scritto, non proprio soddisfacenti.

Come facevo sempre, cercai di trasmettere il mio nuovo innamoramento letterario alla mia migliore amica, anche lei come me avidissima lettrice e cinefila.

Si instaurò quindi una fruizione di Agatha Christie a cappella: io, che li avevo già quasi tutti a casa, leggevo un libro, e subito dopo lo passavo a lei.

Arrivò naturalmente il turno del capolavoro Dieci Piccoli Indiani, la cui trama è nota: dieci sconosciuti, accettano un invito misterioso e si ritrovano a trascorrere un weekend in una villa isolata, ospiti di una persona la cui identità rimane segreta.

L’atmosfera presto si trasforma da bizzarra a inquietante: gli ospiti iniziano a morire uno dopo l’altro, e come se non bastasse le modalità dei delitti paiono ispirate da una vecchia filastrocca per bambini, in cui dieci piccoli indiani muoiono uno dopo l’altro finchè non ne rimane più nessuno. Se l’assassino non verrà trovato al più presto i dieci sconosciuti sembrano destinati alla stessa sorte…

In questi giorni mi aspetto, d aun momento all’altro, di scoprire che si sta preparando un nuovo film tratto da questo libro, in cui Kenneth Branagh interpretarà tutti e dieci i personaggi

Un giorno ricevetti dalla mia amica una telefonata a dir poco disperata: 

“Ho appena iniziato a leggere Dieci Piccoli Indiani!!”

“Bello, vero?”

“Tu non capisci, ho fatto una cosa terribile: per sbaglio ho guardato l’ultima pagina e ho letto la firma in calce alla lettera finale! Ora so chi è l’assassino e non mi potrò più godere il resto del libro!”

“…”

“Non dici niente?? Mi sono rovinata il libro!!”

“Ma no, guarda, non ti preoccupare! Alla fine del libro ci sono tante lettere diverse, ogni personaggio ne ha scritta una! Non è affatto detto che quella che hai visto tu sia quella dell’assassino!”

“Davvero? Oh, meno male! Grazie, ora posso andare avanti a leggere! Che sollievo!”

Pochissimo tempo dopo il telefono suonò ancora:

“Ciao, ho finito il libro…”

“Di già? Bellissimo vero?”

“Sì, e ti volevo ringraziare cara. Alla fine c’è una sola lettera, quella dell’assassino…”

“Già…”

“Non so come ringraziarti per esserti inventata che ogni personaggio ne aveva scritta una, così mi sono goduta il libro lo stesso. Sei una vera amica.”

“Tu per me avresti fatto lo stesso”

“Ho qui la videocassetta del film, ora che tutte e due abbiamo letto il libro, quando lo vediamo?”

“Arrivo!”

Oggi su Amazon Prime si può trovare il film Dieci Piccoli Indiani (in originale And Then There Were None) di René Clair che funziona molto bene per atmosfere, interpreti e regia. Consiglio, se possibile, di vederlo in lingua originale, perchè il doppiaggio italiano non è molto convincente.

E mi raccomando: leggete prima il libro! Ma senza sbirciare l’ultima pagina… 😉

The Tender Bar

Titolo originale: The Tender Bar

Anno: 2021

Regia: George Clooney

Interpreti: Tye Sheridan, Ben Affleck, Christopher Lloyd

Dove trovarlo: Amazon Prime

Il film The Tender Bar è tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di J.R. Moehringer, scrittore e giornalista americano che in questo suo primo libro, edito in Italia nel 2007 con il titolo Il Bar delle Grandi Speranze, racconta della sua infanzia e giovinezza e del suo rapporto con lo zio Charlie (Ben Affleck), fratello della madre e gestore del bar The Dickens che, assumendo in parte le funzioni di figura paterna, sostiene il nipote nella sua ambizione di diventare uno scrittore.

Dopo il deludente film di fantascienza Midnight Sky, George Clooney torna alla regia con questo film dal titolo adorabile (un gioco di parole intraducibile tra “bartender”, barista, e “tender bar”, bar tenero) che aveva le potenzialità per essere davvero carino, potenzialità che purtroppo non sono state sfruttate appieno. Il regista sceglie infatti di adottare molti clichè del cinema americano, puntando al risultato sicuro più che all’originalità: inizio e fine del film speculari con il protagonista in auto verso un futuro incerto, voce narrante fuori campo (che non sembra mai sicura del tono che vuole adottare), colonna sonora accattivante ma che non osa mai troppo. Il personaggio protagonista, JR, che seguiamo nel suo percorso di formazione da bambino a neolaureato, è piuttosto repulsivo per il suo egocentrismo, e la scelta di adottare esclusivamente il suo punto di vista relega purtroppo tutti gli altri personaggi a mere funzioni della sua evoluzione personale, negando loro lo spazio sufficiente per mostrare caratteri e sfaccettature. Le zie, la nonna e le cugine non sono che comparse; il nonno, interpretato da Christopher Lloyd, ottiene appena una scena in cui brillare; il padre è fin troppo prevedibile anche nella sua assenza; il migliore amico e compagno di college Wesley sembra non avere né un carattere né una vita ma esistere solo allo scopo di dare consigli a JR e ascoltarne le elucubrazioni. Da questo ingombrante one-man show si salvano giusto la madre (interpretata da Lily Rabe), personaggio non troppo approfondito e piuttosto stereotipato ma quanto meno presente, e lo zio Charlie, molto ben interpretato da Ben Affleck e vero cuore pulsante del film: è sufficiente vedere la montagna di libri che tiene nell’armadio o dietro il bancone del bar per affezionarsi a questo zio un po’ scapestrato ma fiducioso e tenero (come il suo bar).

Guardate con attenzione le immagini durante i titoli di coda (non dopo i titoli, anche se in questo film sono coinvolti ben due Batman non è un film di supereroi) perchè riempiono un’ellissi narrativa precedente e danno un senso alla presenza degli amici del bar e al regalo finale dello zio Charlie.

Ho seguito a lungo la carriera di George Clooney e sono certa che un giorno dirigerà davvero un ottimo film, ma per quanto riguarda The Tender Bar ci fermiamo alla sufficienza.

Voto: 2 Muffin alla Nutella

Ben Affleck, Tye Sheridan, Daniel Ranieri, George Clooney e Christopher Lloyd

Omicidio all’italiana

Anno: 2017

Regia: Maccio Capatonda

Interpreti: Maccio Capatonda, Luigi Luciano, Sabrina Ferilli, Nino Frassica

Dove trovarlo: Netflix

Il sindaco di Acitrullo Piero Peluria (Maccio Capatonda) ce la mette tutta per portare la modernità e il turismo nel suo minuscolo paesino di appena sedici abitanti, ma nonostante il sostegno economico della sua mecenate, la ricca contessa Ugalda Martirio, ogni sua bizzarra iniziativa fallisce. Quando però Piero si imbatte nel cadavere della contessa, morta soffocata da un babbacchione (il dolce tipico di Acitrullo), decide di inscenare un omicidio per portare il suo paese sotto i riflettori. E infatti subito arrivano i giornalisti, capeggiati dalla bella conduttrice tv Donatella Spruzzone (Sabrina Ferilli) per speculare sulla morte della contessa.

Grazie a quel blasonato cadavere, Acitrullo diventa famoso e viene preso d’assalto dai turisti appassionati di disgrazie. Ma Piero sa che il sogno svanirebbe immediatamente se si scoprisse che l’omicidio è un imbroglio e deve darsi da fare per tenere nascosta la verità.

Forse l’umorismo di Maccio Capatonda, qui regista e attore in due diversi ruoli (quello del protagonista Piero Peluria e quello del politico ignorante e trafficone Filippo Bello), non è adatto a tutti, ma io l’ho sempre trovato esilarante. In Omicidio all’Italiana Capatonda si circonda dello stesso gruppo di attori che lo hanno accompagnato negli anni nei suoi film e sketch (Herbert Ballerina, Ivo Avido) e dà vita a una riflessione non originale ma molto acuta sulla risonanza mediatica dei crimini più efferati nel nostro Paese, portando avanti come sempre la parodia dell’italiano medio e delle sue contraddizioni. L’umorismo di Capatonda non è mai troppo volgare nè scontato, ma è sempre sorprendente per come disattende le aspettative dello spettatore. Il rischio di perdere mordente in un minutaggio più consistente rispetto ai trailer o alle scenette di pochi minuti viene scongiurato grazie alla partecipazione di molti coloriti personaggi, alcuni dei quali interpretati da volti ben noti del cinema e della tv (Sabrina Ferilli, Nino Frassica) che si rendono volentieri complici di questa simpatica e riuscita operazione cinematografica.

Da vedere rigorosamente accompagnato da babbacchioni e amaraccio, il liquore tipico di Acitrullo.

Da non perdere per chi ama la comicità di Maccio Capatonda e vuole trascorrere una serata senza pensieri. Attenzione però: è un filMaccio!