Mel Brooks – All About Me

Nel 2020, durante il surreale periodo del lockdown, tutti noi ci siamo dovuti ingegnare per passare il tempo senza poter uscire di casa né vedere parenti e amici. Molti si sono dati alla cucina, qualcuno al bricolage o al giardinaggio, altri ancora al binge watching di serie tv, qualcuno ha dovuto inventare ogni giorno un passatempo nuovo per i bambini…

Qualcuno invece, ben consigliato dal figlio Max, ha deciso di scrivere un’autobiografia: Mel Brooks.

Il mio film preferito di Mel Brooks: Silent Movie

Il regista americano, che ci ha regalato inarrivabili capolavori della risata come Frankenstein Junior, Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco, e il mio preferito L’Ultima Follia di Mel Brooks, ha sfruttato al meglio l’occasione per riversare su carta i suoi ricordi e raccontarci la sua vita e la sua lunghissima carriera nel mondo dello spettacolo.

Il sorriso che spontaneamente sorge quando si pensa a uno qualunque dei suoi film si trasforma in risata già leggendo il titolo che Brooks ha scelto per la sua autobiografia: All About Me – My Remarkable Life in Show Business (Tutto su di me – La mia ragguardevole vita nel mondo dello spettacolo).

Questo libro ha un gran numero di pregi. Numero uno, è ponderoso. E nonostante questo, una volta arrivati all’ultima pagina non si è ancora pronti per chiuderlo: per favore Mel, un altro aneddoto, un altro nome illustre, un’altra risata… Di Mel Brooks non si è mai sazi!

Il secondo pregio è la metodicità con cui è stato impostato: iniziando naturalmente dalla nascita di Melvin James Kaminsky, il 28 giugno 1926, e dall’infanzia trascorsa con la madre e i fratelli a New York. Tutto è esposto in ordine cronologico, con tutte le date, i nomi e i riferimenti: non male per un signore di 97 anni! 

Un’altra caratteristica che rende il libro una vera chicca per tutti i cinefili è il gran numero di personaggi noti del cinema con cui Mel Brooks ha avuto occasione di collaborare: dai fedelissimi come Gene Wilder, Marty Feldman, Madeline Kahn, alle grandi amicizie come Alan Ladd Jr, Woody Allen, Ezio Greggio, fino alle star di primissimo ordine che con lui hanno lavorato come Orson Welles, Alfred Hitchcock, Liza Minnelli, Paul Newman…

Mel Brooks a pranzo con Alfred Hitchcock

Ma il merito più grande di questo libro secondo me è questo: in tutto il libro, Mel non ha mai una parola cattiva, un giudizio negativo, un accenno di risentimento verso nessuno. Anche i momenti più problematici come le difficoltà economiche della famiglia, il servizio militare, l’esacerbante gavetta come autore di programmi televisivi, ci vengono raccontati con tono sereno, tra ricordi affettuosi di tutti quelli che gli erano accanto e risate condivise con loro. Tutta la vita di Mel Brooks, leggiamo, è stata un’intensa, felice e gioiosa gita verso il successo e la felicità, sul lavoro, nell’arte e nel privato.

Padre di cinque figli, sposato, in seconde nozze, con la meravigliosa attrice Anne Bancroft (la donna matura che seduce il giovane Dustin Hoffman in Il Laureato), Mel si innamora fin da piccolo del teatro e inizia a sognare Broadway. Diventerà presto autore di testi per la stand up comedy, per poi passare alla stesura di copioni per spettacoli, musiche comprese; diventerà poi sceneggiatore, regista e attore. Mel Brooks è uno dei pochissimi appartenenti al mondo dello spettacolo a poter vantare nel suo curriculum un EGOT – acronimo con cui si indicano i 4 premi più importanti del settore: Emmy, Grammy, Oscar e Tony, tutti quanti vinti da Mel nel corso della sua brillante carriera. Ancora oggi Mel non mostra di volersi fermare, continuando a ricoprire il ruolo di doppiatore, attore e produttore, ed essere ricoperto di premi e onorificenze varie (tra cui la National Medal of Arts conferitagli dall’allora Presidente Barack Obama). Mel è riuscito perfino a riportare in vita (“SI PUO’ FARE!”) un progetto che sembrava ormai dimenticato: La Pazza Storia del Mondo Parte 2, seguito annunciato (in originale infatti il titolo del film diretto da Mel Brooks nel 1981 era History of the World Part I) che è diventato una serie tv andata in onda pochi mesi fa.

“Mi serve una casa più grande!”

All About Me riesce a raccontare tutto questo, e molto di più, senza essere noioso nemmeno per una riga. Le vicende produttive di ciascun film, la vita sul set, i rapporti con cast e troupe, gli escamotage per non farsi mettere i bastoni tra le ruote dai produttori: ce n’è per tutti i gusti! 

Gli aneddoti poi, che spesso coinvolgono celebrità del mondo dello spettacolo, sono il piatto forte. 

Il giovanissimo Dustin Hoffman che non può recitare nel ruolo di Franz Liebkind in Per favore non toccate le vecchiette perché deve girare Il Laureato con… Anne Bancroft, la moglie di Brooks!

La gamba della moglie di Mel Brooks

Mel Brooks che va a casa di James Caan per convincerlo a partecipare a Silent Movie e ne esce con una firma sul contratto… e un cagnolino, Pongo, che resterà con lui per ben 15 anni!

James Caan che si pente di aver dato quel cucciolo a Brooks…

Gene Wilder che, al termine delle riprese di Frankenstein Junior, continua ad insistere per rigirare alcune scene, fino ad ammettere di non voler andare a casa perché quello sul set di Mel Brooks è il periodo più felice della sua vita.

(da sinistra) Mel Brooks, Peter Boyle, Marty Feldman, Gene Wilder e Teri Garr

Potrei continuare ad elogiare questa meravigliosa autobiografia per ore (non ho nemmeno parlato della prefazione, una delle cose più divertenti che io abbia mai letto!), ma mi fermo qui insistendo perchè chiunque abbia visto e amato anche un solo film in vita sua (non necessariamente di Mel Brooks, intendo un film qualunque!), e a maggior ragione chi da sempre ama e segue Mel, non esiti un istante di più e corra a procurarsi una copia di All About Me (ricordate che mancano solo 91 giorni a Natale!)

Ecco l’idea regalo perfetta per Natale!

MISERY

Ognuno ha un modo diverso di trascorrere il tempo sotto l’ombrellone in estate: qualcuno ama dormicchiare, qualcuno si dedica alle parole crociate o ai sudoku, qualcuno passa tutto il tempo a parlare a voce altissima al cellulare infastidendo tutti quelli che gli stanno intorno, molti si dedicano a letture leggere, come i “romantichelli” o i “gialletti”. 

Io? Io leggo Stephen King.

Ho già raccontato in passato del mio complicato rapporto con lo scrittore americano, ma, che sia di amore o di odio, non è una relazione che sono in grado di troncare. Così, quando si è trattato di decidere cosa leggere in vacanza, la scelta è caduta su un romanzo scritto da Stephen King nel 1987: Misery.

La traduzione italiana del titolo, Misery non deve morire, non si può dire sbagliata, però porta via al titolo la sua deliziosa ambivalenza semantica. Misery infatti non è solo il nome di un personaggio di finzione nella finzione (come vedremo), ma in inglese significa “miseria, disperazione, infelicità”, e descrive perfettamente la situazione in cui si vengono a trovare i due protagonisti.

Appena 3 anni dopo l’uscita del romanzo, nel 1990, Misery era già diventato un film interpretato da attori eccezionali (Kathy Bates, James Caan e Lauren Bacall) e diretto da Rob Reiner, il regista di classici come Harry ti presento Sally, La Storia Fantastica, Stand by Me

Avevo visto il film molti anni fa e l’avevo trovato magnifico, quindi ero molto curiosa di leggere il romanzo da cui era stato tratto. E poi naturalmente di rivedere il film, per giudicarlo partendo da una nuova prospettiva.

Alla domanda, che forse ha poco senso fare ma che poi tutti fanno, “Ma è meglio il libro o il film?”, rispondo senza alcuna esitazione: “E’ molto meglio il film”.

Questa affermazione ovviamente va motivata, ma vorrei comunque iniziare con una breve sinossi della trama, che è la stessa per il libro e per il film.

Lo scrittore americano Paul Sheldon ha raggiunto fama e ricchezza grazie ad una serie di romanzi d’amore che hanno come protagonista la bella e disinibita Misery Chastain, ma non ha abbandonato il desiderio di scrivere qualcosa di più serio e importante. Decide quindi, nel suo ultimo romanzo, di far morire il personaggio di Misery, per potersi finalmente dedicare ad altro. Mentre l’ultima avventura di Misery viene data alle stampe, Paul intanto scrive la sua opera impegnata. Ma, proprio mentre è in viaggio per portare il manoscritto appena terminato al suo editore, lo sorprende una tempesta di neve e la sua auto finisce fuori strada, capovolta. Ma qualcuno ha assistito all’incidente, salva Paul e lo porta a casa sua, al riparo dalla tormenta, per prestargli le prime cure. Si tratta di Annie Wilkes, che subito lo scrittore riconosce come “la sua fan numero uno”. Annie è un’infermiera che vive sola in una casa isolata tra i boschi del Maine, e si ritiene molto fortunata per aver potuto prestare aiuto al suo idolo. Mentre Paul è bloccato a letto a causa delle ferite riportate nell’incidente quasi mortale, nelle librerie esce Il Figlio di Misery, e Annie corre immediatamente ad acquistarlo. Ma quando scopre che, nel finale, il personaggio di Misery muore, il suo atteggiamento verso il suo ospite convalescente cambierà radicalmente…

Non è difficile vedere come Paul Sheldon sia un alter ego dello stesso Stephen King, come lui stesso spiega nel suo saggio sulla scrittura On Writing, e come la sua crescente dipendenza dai farmaci antidolorifici, somministrati con zelo dalla solerte Annie, ricalchi la dipendenza da farmaci che ha attanagliato King per molto tempo. King, sempre in On Writing, confessa di aver scritto Misery come un grido di aiuto per la sua dipendenza da eroina (da qui l’equazione Annie Wilkes = eroina, che Paul odia ma da cui è dipendente). Si può dire quindi che Misery sia uno dei suoi libri più sentiti e personali (la macchina da scrivere che Annie procura per Paul, la Royal, è la stessa che la madre regala al piccolo Stephen King per il suo undicesimo compleanno). King nel suo saggio spiega però che tutti i suoi personaggi rappresentano una parte di lui stesso, pur essendo alcuni più affini, come Paul Sheldon, e altri più alieni, come Annie Wilkes (questi ultimi però però, svela King, sono i più divertenti da sviluppare – essere per un po’ Annie Wilkes è stata “una gita a Disneyland”). Anche Jack Torrance (interpretato nel film da Jack Nicholson), il protagonista di Shining, è come Paul Sheldon uno scrittore che, nel libro, è dipendente dai farmaci.

A proposito di Shining, che King aveva scritto nel 1977, nel libro Misery ad un certo punto Annie spiega come alcuni giornalisti, di tanto in tanto, si avventurino da quelle parti spinti dalla curiosità verso l’Overlook Hotel… che è l’albergo in cui è ambientato Shining! Questo rimando da un libro all’altro per un attimo mi ha fatto pensare alla possibilità di un “King-verso” in cui tutti i mostri e le creature spaventose dei suoi libri e racconti si trovino a convivere: i fantasmi dell’Overlook Hotel, il San Bernardo crudele Cujo, il clown assassino di IT, l’indemoniata Carrie… e naturalmente Annie Wilkes.

L’idea per la trama di Misery è venuta a King in sogno, mentre si trovava su un aereo diretto a Londra: il suo sogno conteneva tutti gli elementi principali della storia, compreso il maiale con il nome dell’eroina dei libri e uno scrittore che “potrei essere stato io, ma di sicuro non era James Caan” puntualizza King. Al suo risveglio scribacchia i dettagli del suo sogno su un tovagliolino di carta, e non appena giunto in hotel a Londra chiede subito se ci sia un posto quieto dove può mettersi a scrivere. Il solerte consierge lo accompagna in uno studio con una grande scrivania di legno. “Qui” spiega orgoglioso il consierge “ha scritto anche Rudyard Kipling“. “Davvero?” domanda distrattamente King, impaziente di mettersi al lavoro. “Sì, Kipling è morto proprio a questa scrivania. Ha avuto un infarto.” E con questa rivelazione King viene lasciato solo nello studio, dove inizia a prendere forma Misery.

Per fortuna, mentre scrive il libro King abbandona l’idea iniziale che l’infermiera Annie voglia il nuovo libro su Misery stampato sulla pelle della suo maialina omonima. Ma il cambiamento di rotta non impedisce a King, che scrive sempre sotto l’effetto di alcol e droghe, di divertirsi moltissimo (parole sue).

Il film è molto fedele al libro nella trama, nella descrizione dei personaggi, nelle situazioni, nell’atmosfera e nei dialoghi, molti dei quali sono identici parola per parola. Ovviamente il film rispetto al libro deve anche sforbiciare molte cose, ma nel caso di King, questo non è mai un male. Mi spiego: a dispetto del suo mantra “Show, don’t tell” enunciato molte volte in On Writing, King tende invece a spiegare troppo e troppo dettagliatamente e ad esagerare le situazioni (come accadeva anche per Shining). Tanti deliri allucinatori di Paul dovuti ai farmaci, tante situazioni ripetute, tante descrizioni di fenomeni fisiologici, risultano pleonastici ai fini sia della trama che dell’atmosfera. E i lunghi brani del nuovo romanzo su Misery scritto da Paul (su “gentile” richiesta di Annie), sebbene facciano apprezzare il talento di King per il genere “Harmony”, distolgono parecchio e spezzano il crescendo della tensione.

Perchè Misery, in entrambe le versioni, ha come suo punto di forza la costruzione della tensione, che arriva a livelli di puro terrore per il lettore e lo spettatore: questo è innegabile.

Se da una parte la sceneggiatura, inevitabilmente, deve togliere, dall’altra però aggiunge qualcosa, il che va a tutto vantaggio della scorrevolezza e del realismo. Nel libro sono assenti sia il personaggio dell’editore che quello dello sceriffo, che invece aiutano a mostrare come, al di fuori del piccolo mondo a sé che è casa Wilkes, le ricerche del famoso scrittore Paul Sheldon, misteriosamente scomparso durante una tempesta di neve, proseguano senza sosta: queste aggiunte, oltre a rendere più credibile la catena degli eventi, aiutano a portare al massimo la tensione verso il finale, quando Annie inizia a rendersi conto che prima o poi il suo sequestro verrà smascherato. Il film spiega anche alcuni dettagli che nel libro erano tralasciati, come ad esempio il fatto che Annie non abbia trovato per caso Paul durante la tempesta  ma lo stesse seguendo. Anzi, che lo spiasse sempre quando si rintanava nel suo hotel preferito per scrivere i suoi libri: un’informazione non da poco, per capire che tipo di persona dia Annie Wilkes, un personaggio su cui si potrebbero scrivere saggi di psicologia, di psichiatria e di letteratura.

E poi c’è il pinguino: è presente anche nel libro, ma nel film è causa di una delle scene più ansiogene e raccapriccianti. Vedere per credere…

La bravura immensa dei due attori protagonisti del film è fondamentale: se James Caan è perfetto, Kathy Bates è divina. La sua Annie Wilkes è tenera, infantile e dolce, in un primo momento, ma si trasforma gradualmente in un vero demonio, crudele e spaventoso e senza alcuna pietà, che nulla ha da invidiare agli altri mostri soprannaturali di King per ferocia, potenza e terrore che è in grado di suscitare.

Per concludere: Misery è sicuramente il libro che finora ho apprezzato di più di Stephen King; tuttavia, come Shining, non esce bene dal confronto con il film, anche se, proprio come Shining, ha saputo creare un’atmosfera, un’ambientazione e dei personaggi memorabili, che altro non chiedevano se non di diventare un film. E questo, innegabilmente, è un grande merito.

Se qualcuno, dopo la visione di Misery, dice di non essersi voltato nemmeno una volta a guardare se, nascosta nel buio, c’era l’infermiera Wilkes con un coltello… beh, sta mentendo.

L’Ultima Follia di Mel Brooks

Titolo originale: Silent Movie

Anno: 1976

Regia: Mel Brooks

Interpreti: Mel Brooks, Marty Feldman, Dom DeLuise, Bernadette Peters, Sid Caesar, Liam Dunn

Dove trovarlo: a dire il vero ho fatto una gran fatica a trovarlo, era in un mobiletto in cantina in terza fila

Dopo che l’alcool gli ha rovinato la carriera, il regista Mel Funn (Mel Brooks) vuole tentare un grande rientro a Hollywood e propone al capo dei Big Studios (Syd Caesar) un’idea azzardata: realizzare un film muto. Il capo gli propone un accordo: finanzierà il suo film muto solamente se lui riuscirà a coinvolgere nel progetto delle grandi star. Così Mel Funn, insieme ai fidati amici e collaboratori Marty Eggs (Marty Feldman) e Dom Bell (Dom DeLuise) si mette alla ricerca di attori e attrici famosi che vogliano far parte del suo film. Ma lo studio concorrente, Engulf&Devour (Trangugia&Divora), per sabotare il film invia a Funn un’irresistibile tentazione: la seducente soubrette Vilma Kaplan (Bernadette Peters).

Il titolo italiano, L’Ultima Follia di Mel Brooks, come spesso accade è fuorviante: infatti, anche se si può considerare il colpo di coda della fase dei grandi successi del regista Mel Brooks, ad esso sono seguiti molti altri film, anche se non certo all’altezza dei più vecchi (io però personalmente ho un debole anche per Robin Hood – Un Uomo in Calzamaglia). L’idea di inserire nel titoli il nome del regista fa capire subito che si sta parlando di una cosa divertente (e non potrebbe essere diversamente) e prelude già all’impostazione metacinematografica del film, che in lingua originale ha un titolo più semplice ma altrettanto d’impatto e funzionale: Silent Movie. Chi si aspettava infatti un film muto nel 1976? Figuriamoci poi un film muto intitolato Film Muto  il cui argomento è la realizzazione di un film muto… Come sempre, il confine tra follia e genio è davvero sottile… Per quanto mi riguarda, non ho alcun dubbio: genio! Ho sempre amato Mel Brooks, uno dei registi più divertenti in assoluto, che ama il rischio (oltre a un film muto infatti ha diretto un film in bianco e nero, divenuto un classico imprescindibile della commedia: Frankenstein Junior), ma dovendo scegliere tra i suoi titoli il mio preferito la scelta cadrebbe proprio su Silent Movie, proprio perché, raccontando la storia della realizzazione di un film, permette al regista di giocare tutti gli assi metacinematografici a disposizione, con gran gusto dei cinefili. La prima ghiottoneria è il cast. Brooks raduna tutti i suoi fedelissimi compagni di avventure: Marty “Igor” Feldman (già in Young Frankenstein), Dom DeLuise (già in Il Mistero delle Dodici Sedie e Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco), Liam Dunn nei panni dello sfortunato giornalaio (non aveva avuto più fortuna in Frankenstein Junior, dove Gene Wilder lo utilizzava come cavia per i suoi esperimenti sul sistema nervoso), e mette se stesso al timone nei panni del regista del film muto. Si uniscono alla squadra la splendida Bernadette Peters, che entra in scena all’interno di una gigantesca banana “scimmiottando” Marlene Dietrich che nel film del 1932 Venere Bionda si presentava sul palcoscenico in un costume da gorilla, e il simpaticissimo Sid Caesar (l’allenatore che in Grease cercava di insegnare la pallacanestro a John Travolta), che interpreta il capo dello Studio cinematografico e con la sua straordinaria mimica è perfetto per le gag slapstick: la sua “Non lo sai che lo slapstick è morto?” è una delle battute (tutte scritte in fotogrammi a se stanti, che si alternano alle immagini, proprio come nei film muti) più sagaci del film. Ai nomi già citati si aggiungono le grandi star che interpretano se stesse, quelle che Mel e i suoi compagni importunano per convincerli a partecipare al film: Burt Reynolds, James Caan, Liza Minnelli, Anne Bancroft (moglie di Mel Brooks), Paul Newman. Ciascuno di questi attori si presta con grande autoironia a prendere in giro se stesso e le sue fissazioni (Anne Bancroft si presenta come una diva con quattro bellocci al seguito, il vanitoso Burt Reynolds si rimira continuamente in ogni specchio, Paul Newman batte il regista in una frenetica gara di velocità… su sedie a rotelle!). Il film, come già detto, è interamente muto, per tutta la sua durata non si sentono che l’accompagnamento musicale e i molti suoni cartooneschi: tuttavia una parola viene detta, una e una sola! Quale e da chi (e questo è fondamentale) lascio a voi scoprirlo. Raccomando caldamente questo film a tutti: non fatevi spaventare dall’idea che sia un film muto perché è spassosissimo e acuto, adatto ai fan di Mel Brooks, ai nostalgici della vecchia Hollywood, ai cinefili curiosi… e anche ai bambini! 

Voto: 4 Muffin

Get Smart – Casino Totale

Titolo originale: Get Smart

Anno: 2008

Regia: Peter Segal

Interpreti: Steve Carell, Anne Hathaway, Dwayne Johnson, Alan Arkin, Terence Stamp, Bill Murray, Patrick Warburton, James Caan

Dove trovarlo: a casa mia, in mezzo ai cartoni animati

Maxwell Smart (Steve Carell) è l’analista più brillante dell’agenzia di spionaggio Control, ma si allena e studia da anni per superare l’esame e diventare agente operativo. Quando però la sede di Control viene attaccata e le identità di tutti gli agenti rese pubbliche, Max e la sua collega 99 (Anne Hathaway), che ha recentemente modificato il suo volto con un intervento di chirurgia plastica, diventano l’unica speranza per sventare il malefico piano dell’organizzazione criminale Kaos.

Get Smart, letteralmente “fatti intelligente”, è la trasposizione cinematografica della serie tv omonima degli anni ‘60, prodotta tra gli altri da Mel Brooks, e ne mantiene l’umorismo semplice e adatto a tutti ma non grossolano. Il film è una parodia riuscita e accessibile ai film di spionaggio e a quelli di 007 in particolare, che offre scene e situazioni davvero divertenti ma che riesce a essere di per sé un film completo e ben riuscito, con qualche caduta di ritmo e qualche  stranezza formale che però si fanno presto perdonare. Steve Carell è un ottimo protagonista, tenero e divertente; Anne Hathaway è adatta per il ruolo di spia veterana presuntuosa e saccente che alla fine si innamora della genuinità e dedizione del collega; Dwayne “The Rock” Johnson dà lustro al film con la sua presenza e la sua grande simpatia, dimostrando però di avere anche doti recitative; Terence Stamp un perfetto antagonista megalomane su modello bondiano; Alan Arkin una forza della natura; James Caan spassoso e perfettamente a suo agio nel ruolo del presidente degli Stati Uniti; menzione speciale per Bill Murray, che compare nei panni di… un albero!

Voto: 4 Muffin

K – Stephen King of Kings

Ho un rapporto davvero strano con lo scrittore americano Stephen King. Forse tutto deriva dal fatto che il suo nome è ridondante: infatti in greco “stephanos” è “colui che porta la corona, mentre in inglese “king” significa “re”… Insomma, è l’uomo che volle farsi re re. 

Come tutti ho visto moltissimi film tratti dalle sue opere, e in generale mi sono piaciuti. Mi è piaciuto molto Il Miglio Verde. Trovo che Misery non deve morire sia un vero capolavoro (e con due protagonisti come Kathy Bates e James Caan come poteva essere diversamente?). It, nonostante la presenza di Tim Curry, non mi ha detto proprio niente (non ho visto la nuova versione però). Ho trovato Cujo un passabile film del genere “animali assassini” che tanto amo. Christine un thriller simpatico con alla base un’idea non nuova ma declinata con originalità (una ragazza gelosa incarnata in un’automobile). Mi piace molto anche The Mist, che ha avuto invece critiche molto negative: al contrario io lo trovo angosciante e inquietante al punto giusto e credo che l’idea che, in caso di situazioni estreme, gli uomini diventino fanatici religiosi e spietati assassini nel giro di pochissimo tempo sia piuttosto realistica. Fin qui ho citato solamente film che ho visto senza leggere il romanzo o il racconto di King su cui sono basati. Vorrei ora parlare invece del libro The Dome, che ho letto e che si sviluppa in modo simile a The Mist: in una situazione estrema (anziché la nebbia popolata di mostri assassini qui è una gigantesca cupola che separa un piccolo paese americano dal resto del mondo) gli esseri umani impiegano pochissimo tempo a divenire eroi se prima erano brave persone oppure spietati assassini se prima erano di dubbia moralità. Anche se si volesse accettare questa resa dicotomica dei caratteri dei protagonisti, la premessa soprannaturale della storia a mio parere doveva restare un mistero: quando l’autore cerca di spiegarla diventa una cosa ridicola e grottesca (e mi domando come sia stato possibile renderla nella serie tv, che non ho visto). E poi, c’è Shining. Shining è senza dubbio il mio film preferito di Kubrick, l’ho visto tantissime volte e ogni volta mi fa paura, lo conosco a memoria e ne amo ogni dettaglio. Ma so che a Stephen King non piaceva perché non era fedele al suo romanzo. Dunque lessi il romanzo con grandissime aspettative e ne rimasi davvero delusa: non era nemmeno lontanamente bello come il film! Certo chiariva molte cose che nel film erano mostrate senza spiegazioni (come gli uomini con maschere da animali o la vecchia nella vasca da bagno), ma non era spaventoso, non aveva suspense e alcune trovate erano perfino ridicole (come le siepi a forma di animali che si animavano). Per chiudere il cerchio vidi anche la versione cinematografica di Shining che King aveva curato personalmente: un vero disastro! Per un film che dovrebbe essere un thriller annoiare o anche far ridere lo spettatore non può che ritenersi una sconfitta… Dunque il successo planetario di Stephen King rimaneva per me un mistero. Ma allora, se non mi sono mai innamorata né dei libri nè dei film, come mai continuo a “sentire” Stephen King? So che deve sembrare una scemenza, ma mi capita molto spesso di associare alle cose che vedo o ai luoghi in cui mi trovo delle sensazioni che ricollego alle atmosfere di King. Capita soprattutto quando sono in montagna, cioè in un ambiente piuttosto simile a quello in cui King vive e ambienta molte delle suo opere: il Maine, con i suoi piccoli paesi spettrali e i suoi fitti boschi nebbiosi. Non è lo stesso Maine solare e bucolico della Signora in Giallo (che stranamente è un’altra parte importantissima della mia formazione personale), questo è certo. Quando mi trovo in montagna, mentre tutti intorno a me si rilassano e si godono la quiete e la natura, io penso a come siano spettrali i paesini, a come siano inquietanti le giornate nebbiose e a cosa si potrebbe nascondere tra gli alberi o sotto le rocce. Sto ancora cercando di risolvere questo mistero, di capire che cosa mi leghi davvero a Stephen King, se amore o odio, se ammirazione o delusione, se curiosità o invidia. Forse ho solamente letto i libri sbagliati, il che è plausibile, data la vastità della sua bibliografia. Ho appena finito di leggere On Writing – A Memoir of the Craft, il suo saggio parte autobiografia parte manuale di istruzioni per scrittori esordienti, che mi è stato consigliato per diverse ragioni da diverse persone nel corso degli anni. Mi sono finalmente decisa a leggerlo nella speranza che potessero essere le parole stesse dell’autore a svelarmi l’arcano: e forse è stato così. Nell’ultima pagina infatti King conclude così (traduzione mia): “La parte migliore di questo libro è un permesso: tu puoi, tu dovresti, e se sei abbastanza coraggioso da iniziare, tu ce la farai [a diventare uno scrittore]”. Perciò poco importa se spesso non ho capito o non ho apprezzato le sue opere (la mia promessa di recupararne altre resta comunque valida): King si è rivelato un buon mentore per la sua grande consapevolezza di scrittore. Lui sa, perchè così è stato anche per lui, che l’aspirante scrittore deve prima di tutto dare a se stesso (e non cercare di ottenere dagli altri) il permesso di considerarsi uno scrittore. King basa queste riflessioni sulla sua esperienza di autore di racconti e romanzi, ma mi piace pensare che si possano estendere anche a chi ha deciso di riversare la sua energia creativa in un blog, magari un blog sul cinema….