Una cameriera che sogna di diventare una star e un cantante di grande successo ma con gravi problemi di alcool e droga si conoscono per caso nel locale di drag queen in cui lei si esibisce. Tra i due scocca la scintilla, la fama di Jack (Bradley Cooper) spianerà la strada verso il successo per Ally (Lady Gaga) ma le dipendenze di lui renderanno molto difficile il rapporto di coppia.
La storia si racconta in due righe e non è certo nuova, visto che abbiamo già avuto due film dallo stesso titolo, uno del 1954 con Judy Garland e James Mason e uno del 1976 con Barbra Streisand e Kris Kristofferson. Tuttavia questa nuova versione mi è piaciuta davvero molto, perciò mi sento di consigliare questo film agli amanti della musica e anche a chi ama vedere sullo schermo storie d’amore complicate. Io ero già una fan di Lady Gaga ma credo che in questo film la celebre cantante pop brilli davvero come una stella per il suo genuino talento canoro e per le sue più che adatte doti recitative. Doppio applauso poi per Bradley Cooper, attore affascinante e simpaticissimo, che qui non solo si cala in un ruolo molto difficoltoso ma si cimenta anche per la prima volta come regista, ottenendo un ottimo risultato: senza particolari vezzi autoriali Cooper riesce a raccontare questa storia, semplice ma intensa, in modo lineare e accattivante, facendoci davvero affezionare ai due protagonisti e al fratello di Jack, Bobby, interpretato dal sempre mitico Sam Elliott. Belle musiche e canzoni, bravi gli attori, pulita la regia di Cooper, che ci inonda di luci quando sale sul palco per mostrare lo straniamento di chi è sotto l’effetto di alcool e droghe ma ci racconta poi una dolce e sofferta storia d’amore con grazia e tenerezza. Meritato l’Oscar per la miglior canzone a Shallow, cantata da Lady Gaga e Bradley Cooper.
Interpreti: Henry Cavill, Armie Hammer, Alicia Vikander, Hugh Grant
Dove trovarlo: Netflix
Nel politicamente delicatissimo 1963 le intelligence di diversi paesi decidono di collaborare in un’operazione congiunta per smascherare un pericoloso traffico di armi. Napoleon Solo (Henry Cavill) e Illya Kuryakin (Armie Hammer), rispettivamente i migliori agenti della CIA e del KGB, saranno costretti a fare squadra insieme alla bella e imprevedibile Gaby Teller (Alicia Vikander), figlia di uno scienziato misteriosamente scomparso da Berlino Est. Le ricerche iniziano a Roma.
Guy Ritchie, già regista di ottimi film d’azione ricchi di umorismo come Snatch e i due film di Sherlock Holmes con Robert Downey Jr., partecipa anche come sceneggiatore a questo adattamento della famosa serie tv degli anni ‘60 Organizzazione U.N.C.L.E. La serie, che aveva come protagonisti Robert Vaughn e David McCallum, si colloca tra i molti prodotti derivati dalla Bond-mania scoppiata dopo il primo film di 007, Licenza di Uccidere, uscito nel 1962. Il film di Ritchie riprende i personaggi protagonisti della serie, Napoleon Solo (che inizialmente avrebbe dovuto dare anche il nome al telefilm, Solo, ma i produttori dei film di James Bond intentarono una causa in quanto un personaggio di nome Solo era presente anche nel romanzo di Ian Fleming Goldfinger) e Illya Kuryakin e racconta la nascita del loro improbabile sodalizio dal quale, intuiamo, nasceranno molte altre collaborazioni. Henry Cavill (il suo fascino è di certo più valorizzato dai completi eleganti di Solo che dagli occhi gialli di The Witcher) è una scelta perfetta per l’agente affascinante, pragmatico e arguto della CIA; Armie Hammer, anche lui prestante e inaspettatamente dotato di grande umorismo, è un contraltare perfetto e i dialoghi tra i due sono sempre brillanti. Sfuggente e bellissima, Alicia Vikander/Gaby Teller è l’elemento esplosivo e destabilizzante della squadra. Aggiunge lustro al cast la presenza di Hugh Grant, capo del servizio segreto britannico dall’impeccabile humor inglese: sebbene compaia per pochi minuti sullo schermo la sua presenza irradia simpatia. In perfetto stile Bond, Ritchie crea un gran bel film di spie ricco d’azione e colpi di scena ma che non si prende mai troppo sul serio: proprio come per 007, una battuta detta nel tono giusto stempera anche la violenza più cruda (un esempio perfetto è la scena della morte del torturatore di professione, che mi ha fatto ridere di pancia). Scene d’azione incalzanti, bei vestiti, tanto divertimento: cosa volere di più? Un seguito?
Il Duca di Hastings (Regé-Jean Page) e Dafne Bridgerton (Phoebe Dynevor)
Caro Lettore,
Troppo spesso nelle nostre vite ci sentiamo sottoposti ad una importuna pressione sociale, e il colmo è che questo avviene anche quando in società non ci viviamo affatto, come in questa contingenza storica che stiamo vivendo. Nonostante la mancanza di feste e balli ci permetta di risparmiare considerevolmente sulla crinolina e le stecche di balena, le energie che spendiamo nel tentativo di non lasciarci andare sono altrettanto ragguardevoli. Questa segregazione forzata, che ci allontana da molte delle attività che normalmente riempiono, non solo temporalmente, le nostre esistenze, idealmente ci sta offrendo su un vassoio d’argento l’opportunità di lavorare su noi stessi al fine di migliore come esseri umani, in previsione di uno sfavillante nuovo debutto in società quando le circostanze lo permetteranno. Accade dunque a molti di noi, e a questa autrice certamente, di sentirsi in qualche modo moralmente costretti ad utilizzare la benedizione di quest’abbondanza di tempo libero per nobili fini quali l’auto-istruzione, l’auto-apprendimento e l’auto-arricchimento a livello morale, culturale e spirituale. La sottoscritta tuttavia, sebbene non possa che condividere gli alti ideali di cui sopra, di tanto in tanto sente il bisogno stringente di allentare la pressione sulla propria materia grigia e lasciarsi andare a qualche inescusabile frivolezza intellettiva, per rinfrancare mente e spirito. In poche parole, quando ci si diverte e poi ci si diverte per il fatto che ci si sta divertendo. La serie Bridgerton, offerta da Netflix, caro lettore, è perfetta a questo scopo: chi vi si approccia scevro da ogni desiderio di realismo, accuratezza storica e arricchimento morale e culturale troverà in essa un intrattenimento delizioso ed appagante. E poco importa se l’Inghilterra del diciannovesimo secolo descritta dalla showrunner Shonda Rhimes poco ha a che fare con quella aderente alla realtà storica conosciuta, ad esempio, attraverso la meravigliosa serieDownton Abbey, e la sensazione evocata dalla serie si avvicina di più a Desperate Housewives che a Jane Austen (che pure è ben presente, in spirito). Bastano pochi minuti di immersione nella visione per dimenticare quanto abiti ed acconciature siano improbabili e per fare l’abitudine ad un cast, come è stato appropriatamente definito, “politically daltonico” e lasciarsi trasportare nel mondo colorato e glamour della nobile famiglia Bridgerton, che ha il costume di dare i nomi ai propri discendenti seguendo l’ordine alfabetico. Ecco quindi Anthony, Benedict, Colin, Dafne, Eloise, Francesca, Gregory e Hyacinth Bridgerton, ma le nostre attenzioni si concentrano presto sulla bella e compita Dafne, cresciuta ed educata ad un solo scopo: trovare un buon marito affinché le sue sorelle possano poi fare altrettanto e la famiglia possa prosperare. E l’amore? Quello sembra fuori questione, almeno fino a che Dafne non incontra (o meglio si scontra) con l’affascinante Duca di Hastings: tra i due sono subito scintille e appare evidente come non si sopportino, ma naturalmente le cose sono destinate a cambiare, e su questo non vi è dubbio alcuno. Il divertimento consiste nel vedere in che modo questo accadrà a come ne verranno influenzati i molti differenti personaggi che si muovono intorno ai due piccioncini. Vi sono, c’è da dire, alcune inaccuratezze nella trama, ma non temere, caro lettore: gli addominali scolpiti del Duca sono qui apposta per tappare ogni buco di sceneggiatura! Nonostante questa piacevole distrazione, questa autrice non può fare a meno di domandarsi che fine abbia fatto la preziosa collana donata dal Principe a Dafne e abbandonata dalla stessa nel giardino… questo argomento è stato dimenticato dagli sceneggiatori, con grande disappunto della sottoscritta che sperava invece in una svolta avventurosa ispirata ad un famoso autore d’oltremanica, un certo Dumas…
Che fine ha fatto la collana?
A guidarci in questo viaggio senza pensieri sarà la voce melodiosa della superba Julie Andrews, la glassa su questo dolcissimo e variopinto cupcake, nei panni della misteriosa Lady Whistledown, regina del gossip, una cui parola può distruggere o salvare una reputazione. Va considerato però che lo stratagemma narrativo di ricorrere ad una figura misteriosa, una dama che scrive nascondendosi dietro ad uno pseudonimo altolocato, sulla cui identità tutti si interrogano non potendo far altro che speculare all’infinito, potrebbe non avere efficacia e non irretire lo spettatore… Ma se invece sei rimasto stuzzicato da queste premesse, caro lettore, ti consiglio di non indugiare oltre e intraprendere la visione immantinente!
Una catastrofe ambientale ha reso irrespirabile l’aria del pianeta Terra. Mentre l’intera popolazione viene messa al riparo nei rifugi sotterranei (che non offrono che una salvezza momentanea) lo scienziato Augustine Lofthouse, malato terminale, decide di rimanere da solo in una base dell’Antartico dove monitorare la situazione attendendo la morte in solitudine. Ma non sarà così: nella base è rimasta una bambina, di cui Augustine dovrà prendersi cura. E non è tutto: la nave spaziale Ether sta infatti rientrando sulla Terra dopo una missione esplorativa sulla quinta Luna di Giove. Augustine tenterà tra mille difficoltà di contattare la nave prima che atterri per salvare la vita al suo equipaggio.
L’uscita di un nuovo film di e conGeorge Clooney, anche se su Netflix anziché nelle sale, sarà sempre qualcosa di cui parlare. Il punto di domanda è: se ne parlerà bene o male? Purtroppo, in questo caso, per quanto si possano apprezzare le buone intenzioni, è davvero difficile, anche per una grande fan di Clooney come me, parlare bene di Midnight Sky. Il film, tratto dal romanzo Good Morning, Midnight di Lily Brook-Dalton (tradotto in Italia con La Distanza tra le Stelle da Editrice Nord) è una parabola ecologista fatta col cuore: sappiamo infatti che Clooney è da sempre impegnato sul fronte politico tanto quanto su quello ambientalista e questo suo impegno traspare inevitabilmente nelle sue opere cinematografiche, ma mentre sul versante della denuncia politica il risultato era stato molto buono con il film da lui diretto Good Night and Good Luck del 2005, in questo caso il suo messaggio manca d’impatto a livello ideologico, oltre ad avere diversi difetti a livello tecnico e narrativo. Tutto quello che si può dire sulla situazione ambientale del nostro pianeta, secondo me, è già stata detta nella maniera più efficace possibile dal cartoon Pixar Wall·E nel 2008: ogni altro prodotto televisivo o cinematografico non può che tentare di emularne l’efficacia nel veicolare un messaggio così importante in modo serio, divertente e commovente allo stesso tempo. Nel film di Clooney troviamo sì la volontà di metterci ancora una volta in guardia dai cambiamenti climatici che noi stessi stiamo causando, ma senza il mordente che potrebbe avere un “semplice” documentario comePunto di Non Ritorno. Il disastro ambientale nel film non è descritto né spiegato, si dice semplicemente che è stato “un errore”, dunque che è causato indubbiamente dall’uomo. L’altra metà del cielo di mezzanotte è quella dei sentimenti umani, che sono trattati con molta convenzionalità: Augustine non è che il solito protagonista cinico ed egoista che riscopre l’importanza dei legami e la fiducia nel prossimo. Un personaggio molto simile Clooney lo aveva già interpretato nel film Disney del 2015 Tomorrowland, avventura per ragazzi con messaggio ecologista auto-assolutorio incorporato. Purtroppo sono caratterizzati in modo molto superficiale tutti gli astronauti dell’Ether, che potevano essere invece un valevole contraltare oltre che un catalizzatore delle speranze di Augustine. E qui entra in gioco un altro elemento del film, quello fantascientifico. Anche in questo caso Clooney ha dei precedenti attoriali, dal pleonastico remake del classico di Tarkovskij Solaris (a cui è impossibile non vedere qui dei richiami) di Steven Soderbergh al più recente Gravity di Alfonso Cuaron: anche per questo forse in Midnight Sky confluiscono troppe influenze dalla fantascienza cinematografica, per cui tutte le scene ambientate nello spazio sono fin troppo familiari allo spettatore, e anche se sono ben realizzate tecnicamente (pollice verso solamente per la colonna sonora di Alexandre Desplat, davvero troppo invadente) non salvano un film troppo noioso nella parte iniziale e con un colpo di scena finale che non è affatto tale e delude anche chi, come me, per amore di George (che per interpretare il malato terminale Augustine ha perso dodici chili in troppo poco tempo e guadagnato una pancreatite) e del suo impegno cercava il bello ad ogni costo. Midnight Sky alla fine non è certo un film inguardabile, ma nonostante i suoi nobili intenti non riesce a regalare nulla di speciale né dal punto di vista emotivo né da quello tecnico e narrativo, soprattutto a chi abbia una certa familiarità con il genere fantascientifico al cinema. Come consolazione lascio un Midnight Sky molto più sgargiante.
Interpreti: Ryan Reynolds, Mèlanie Laurent, Manuel Garcia Rulfo, Ben Hardy, Adria Arjona, Dave Franco, Corey Hawkins
Dove trovarlo: Netflix
Tutto è iniziato con il numero Uno (Ryan Reynolds), un misterioso milionario che, creduto morto in seguito ad un incidente aereo, ha pensato di poter utilizzare le sue risorse e le sue abilità per correggere alcune storture del mondo, agendo di nascosto e al di fuori della legge per eliminare coloro che ritiene colpevoli di ingiustizie e prevaricazioni imperdonabili. Per raggiungere il suo obiettivo mette insieme una squadra di combattenti, “fantasmi” come lui, ciascuno con una sua abilità specifica e un passato da dimenticare. L’arrivo di Sette (Corey Hawkins), soldato con un forte senso della giustizia e della lealtà, rischia però di far saltare gli equilibri.
Nel pubblicizzare questo film si è deciso di puntare tutto sull’azione, che naturalmente non manca in questo film del veterano dell’action Michael Bay (e se ve lo state chiedendo, sì, certo che esplode tutto), regista di classici del genere come Armageddon e Transformers, ma 6 Underground non è soltanto acrobazie e sparatorie. La prima sequenza, infatti, è un adrenalinico inseguimento in auto (girato in parte in Italia, a Firenze) durante il quale il regista riesce con abilità a presentare tutti i personaggi non solo con le loro abilità specifiche ma proprio come personalità e caratteri. E così dopo qualche minuto di film ci si è già affezionati a questa squadra di giustizieri squinternati e si è vogliosi di seguire il resto delle loro avventure. Il film si segue volentieri dall’inizio alla fine, godendo delle spettacolari acrobazie ma anche con molto divertimento, perché i dialoghi e le situazioni non mancano di umorismo, senza però mai diventare parodia del genere. Action al 100% ma ben fatto, con scene visivamente molto interessanti come quelle del magnete super potente o le diverse sequenze di parkour. Personaggi approfonditi solo quanto basta ma adeguati al tono complessivo e veicolati da un buon cast di attori (anche Ryan Reynolds, attore per cui non provo grande simpatia, offre una prova dignitosa) messi in ombra solo dal magnifico lavoro degli stuntman. Consigliato per gli amanti dell’azione scapicollata mescolata con la giusta dose di sentimenti (la conclusione inaspettata della prima scena è stato per me un colpo inatteso) e di umorismo.
Belsnickel era l’elfo prediletto da Babbo e Mamma Natale finché non divenne geloso e dispettoso: le sue cattive azioni lo portarono ad essere punito con l’esilio dal magico paese del Natale. Trasformato in un essere umano e privato di tutti i poteri elfici, Belsnickel si rifugia al Polo Sud dove progetta a lungo la sua vendetta. Per poter tornare nel paese del Natale, protetto da una barriera magica che solo Babbo Natale può attraversare, decide di usare l’astuzia e di sfruttare i guai di Kate, ormai cresciuta e alle prese con le difficoltà emotive nell’accettare il nuovo compagno della madre.
Dopo il grande successo del primo capitolo, a dirigere la nuova avventura del Babbo Natale più cool del momento, sempre interpretato dall’eccezionale Kurt Russell, arriva il veterano Chris Columbus, già produttore di Qualcuno salvi il Natale e naturalmente autore di commedie per famiglie di grande successo come Mamma, ho perso l’Aereo e Mrs. Doubtfire, entrambi disponibili su Disney Plus per un ripasso a tema. Risultato? Il film risulta più mieloso del precedente, concedendo ancora più spazio ai buoni sentimenti, alla redenzione e all’inossidabile spirito del Natale, ma siamo comunque entro i limiti concessi ai film di questo genere. La trama non è l’elemento preponderante, anzi meglio non soffermarsi a pensare all’ovvietà del parallelismo tra l’elfo reietto e la ragazzina che scappa via dalla famiglia perché il nuovo compagno della madre non potrà mai prendere il posto del suo vero padre. Ma se si tralasciano questi elementi meno forti si possono trovare moltissimi motivi per vedere questo film e goderselo fino in fondo. Kurt Russell non delude le aspettative, anche se purtroppo in questo film la sua canzone è stata tradotta e doppiata in italiano con un pessimo risultato. Ha invece un ruolo principale Goldie Hawn, compagna di Russell anche nella vita, nei panni di Mrs. Claus, che nel primo film faceva appena un cameo mentre qui è una splendida coprotagonista e distribuisce abbracci e biscotti glassati esplosivi alla bisogna. Per il resto torna la protagonista Darby Camp del primo film, che in questa nuova avventura non è affiancata dal fratello ma dal futuro fratellastro, il simpatico Jahzir Bruno. Il cattivo della storia, l’elfo rinnegato Belsnickel (Julian Dennison), è piuttosto insignificante, anche perché si capisce immediatamente che non è affatto cattivo e nel finale si redimerà e tornerà nei ranghi degli elfi obbedienti. La CGI è usata con abbondanza ma anche con sapienza per realizzare gli elfi, il paese del Natale e molti dei curiosi congegni di Belsnickel, che con le sue abilità ingegneristiche ha sopperito alla perdita della magia. Facendo un confronto, il primo film era più originale, divertente ed equilibrato, mentre questo gioca al rialzo su cast, zucchero ed effetti speciali diventando a tratti stucchevole (la canzone finale è decisamente troppo lunga per esempio), ma in conclusione è anche questo un film perfetto per le feste, godibile per adulti e bambini. Resta inspiegabile come sia possibile per una ragazzina non desiderare Tyrese Gibson, simpaticissimo e affascinante protagonista di classici del genere action come Death Race e Fast & Furious (tutti dal secondo in poi ad eccezione del terzo), come patrigno.
Interpreti: Kurt Russel, Oliver Hudson, Kimberly Williams-Paisley, Judah Lewis, Darby Camp
Dove trovarlo: Netflix
Per la piccola Kate (Darby Camp) e il fratello adolescente Teddy (Judah Lewis) il Natale non è più lo stesso da quando il padre, vigile del fuoco, ha perso la vita durante un’operazione di soccorso. Ora la madre Claire (Kimberly Williams-Paisley) è spesso assente per lavoro e Teddy, lasciato a se stesso, sta frequentando le persone sbagliate e rischia di diventare un delinquente. Kate però non smette di credere nella festa del Natale, la festa tanto amata dal padre, che ogni anno realizzava un video natalizio da condividere con amici e parenti. Riguardando proprio uno di quei vecchi filmati Kate nota un particolare: una mano che mette un regalo sotto l’albero. Convinta che si tratti del vero Babbo Natale, Kate convince il fratello a farsi aiutare a coglierlo sul fatto, riprendendolo quando verrà a consegnare i doni. La notte di Natale il sistema di allarme casalingo avverte i ragazzi che in casa c’è qualcuno e i due trovano nientemeno che una slitta trainata da renne volanti posteggiata in strada. Desiderosi di filmare Babbo Natale all’opera si intrufolano nella slitta, che riparte con loro a bordo. Babbo Natale (Kurt Russel) che non si è accorto della loro presenza viene colto di sorpresa e finisce per schiantarsi a terra con la slitta. Babbo Natale, Kate e Teddy sono incolumi, ma le renne sono fuggite, la slitta è rotta e i doni sono andati perduti. Il Natale è seriamente in pericolo!
Qualcuno Salvi il Natale è, non serve dirlo, un classico film di Natale, in cui non manca alcun elemento distintivo del genere: la magia, l’avventura, gli elfi, le renne volanti, la riscoperta dei buoni sentimenti, il dolce lieto fine. Dunque si astengano i Grinch più scorbutici. Tutti gli altri invece troveranno un film ben fatto, divertente per bambini ma anche per adulti, adatto a tutta la famiglia ma non stucchevole nel sentimentalismo, che c’è ma si sente solo nella misura necessaria. Kurt Russell, grintoso e spiritosissimo, si candida a diventare uno dei migliori Santa Claus di sempre, (di sicuro è quello più in forma, con la sua ossessione per la palestra) esibendosi anche in un fantastico numero musicale nella prigione (sì, in questo film Babbo Natale finisce dietro le sbarre). Diventerà senza dubbio un classico di Natale, ed è la scelta giusta per una tenera e divertente serata in famiglia durante le feste. Con un seguito, Qualcuno Salvi il Natale 2, di cui parlerò a breve. Occhio all’apparizione nel finale della Signora Natale in persona.
Interpreti: Jennifer Lawrence, Chris Pratt, Michael Sheen, Lawrence Fishburne, Andy Garcia
Dove trovarlo: Netflix
La Avalon è un’enorme nave spaziale super tecnologica la cui missione è quella di trasportare 5000 passeggeri più 258 membri di equipaggio fino al pianeta Homeland 2, dove potranno stabilirsi e costruirsi una nuova vita lontano dall’inquinamento e dal sovraffollamento della Terra. Tutti gli umani a bordo si trovano in stato di animazione sospesa, mentre il computer gestisce il viaggio, la cui durata stimata è di un centinaio d’anni. Tuttavia un passeggero, l’ingegnere Jim Preston (Chris Pratt), si risveglia quando mancano ancora una novantina d’anni all’arrivo su Homeland 2. Ogni tentativo di comunicare con la Terra o di ripristinare l’animazione sospesa fallisce, così Jim sembra destinato a trascorrere la sua intera esistenza solo sulla Avalon, con l’unica compagnia del barman androide Arthur (Michael Sheen), giungendo nella terra promessa solamente da morto. Dopo aver trascorso un intero anno in completa solitudine, Jim inizia a domandarsi cosa accadrebbe invece se svegliasse qualcun altro per avere un po’ di compagnia: la bella Aurora (Jennifer Lawrence), per esempio, scrittrice di New York: ma può condannare un altro essere umano ad una vita di estrema solitudine essere la scelta giusta?
Amo moltissimo la fantascienza che, come gli altri cosiddetti “generi” (western, horror…), nella storia del cinema spesso è stata il veicolo accattivante di importanti messaggi, riflessioni psicologiche, politiche e sociologiche e speculazioni etiche e filosofiche (penso a film come Solaris, Il Pianeta Proibito o L’Invasione degli Ultracorpi). Non è questo il caso di Passengers, però, che pur contenendo vari spunti per interessanti riflessioni (è giusto condannare un altro essere umano per alleviare il peso della solitudine? Può il destino portare persone diversissime ad incontrarsi e innamorarsi pur nelle più avverse contingenze? Ha senso affidare le nostre vite alla tecnologia, anche la più avanzata? Come si potranno superare le ingiustizie sociali della Terra se anche sull’astronave i passeggeri sono rigidamente divisi in classi?) alla fine altro non è che la classica commedia romantica ravvivata dall’ambientazione spaziale e dalla componente avventurosa (oltre che dal fondoschiena di Chris Pratt, che viene mostrato spesso e volentieri senza ragione). Detto questo credo non sia difficile immaginare quale sarà il tono del racconto e il suo finale, ma ci tengo comunque a precisare che la recensione conterrà anche alcuni spoiler. Come dicevo, dopo un inizio accattivante e una parte divertente (quella in cui Jim si gode tutte le meraviglie della nave in solitudine, passeggiate spaziali comprese), il film mostra tutti i suoi limiti a partire da quando Jim sveglia effettivamente la bella addormentata (non credo sia un caso se il personaggio si chiama Aurora). Per essere un film retto da due soli personaggi, Jim e Aurora si rivelano essere piatti, non approfonditi nelle loro motivazioni e nei sentimenti, i cui dialoghi sono sempre superficiali e le battute prevedibili: come mai si innamorino, litighino e poi si ritrovino, noia disperata a parte, non si spiega davvero, almeno non nei dialoghi e negli stralci di backstory che ci vengono forniti. Jennifer Lawrence, attrice di talento, in questo film non fa niente altro che essere stupenda (e potrebbe anche bastare), mentre Chris Pratt fa l’unica cosa che sa fare, l’ingenuo tenerone. Lawrence Fishburne ha il ruolo più imbarazzante, quello del membro dell’equipaggio che si risveglia solo per dare ad Adamo ed Eva le informazioni (e le autorizzazioni) di cui hanno bisogno per risolvere il mistero dei malfunzionamenti a bordo, dopodiché, appropriatamente, muore. Chi invece resta fino alla fine è l’androide Arthur, il barista confidente (un Michael Pitt perfettamente robotico), la trovata migliore del film. Sono sicurissima di non essere l’unica che, alla prima apparizione del buon Arthur, ha pensato al Lloyd di Shining, prima di capire che in questo film, come non c’è nulla di Asimov, così non c’è nulla di Tarkovsky, nè di Kubrick.
Il miglio barista tra Timbuctù e Portland, Maine. O Alpha Centauri, se preferite.
Inspiegabilmente Andy Garcia compare negli ultimi tre fotogrammi del film nei panni del capitano, lasciando l’impressione che forse sia stata cambiato il finale in corso d’opera e che il suo personaggio dovesse avere anche qualche battuta. Il finale, una volta inquadrato il genere di film, è prevedibile: l’ingegnere Jim diventa salvatore dell’intero equipaggio e (quasi) si sacrifica per il bene di tutti gli altri passeggeri. Aurora, che potrebbe tornare in animazione sospesa, decide invece di consumare la sua esistenza a bordo della Avalon insieme a Jim, scrivendo il capolavoro letterario della sua vita. Mi chiedo se solamente a me, immaginando questi due su un’astronave da soli per tutta la vita, siano venuti in mente loro:
“Che barba, che noia, che noia, che barba!”
Per concludere, Passengers è un buon film di intrattenimento per trascorrere un paio d’ore senza pensieri tra stelle e robot spazzini, ma per chi nella fantascienza cerca qualcosa di più non è il film giusto.