Spiderman – No Way Home

Anno: 2022

Regia: Jon Watts

Interpreti: Tom Holland, Zendaya, Benedict Cumberbatch, Marisa Tomei, Jon Favreu, Willem Dafoe, Tobey Maguire, Andrew Garfield, Alfred Molina, Jamie Foxx, Rhys Ifans, Charlie Cox, J.K. Simmons

Dove trovarlo: Disney Plus

Dopo che il villain Mysterio (Jake Gyllenhaal) ha svelato al mondo la sua identità segreta, Spiderman/Peter Parker (Tom Holland) capisce ben presto che questa inaspettata celebrità sta rovinando non solo la sua vita ma anche quella di chi gli vuole bene. Si rivolge quindi al potente Doctor Strange (Benedict Cumberbatch) chiedendogli di cancellare la memoria di tutti coloro che conoscono il suo segreto. Ma qualcosa nell’incantesimo va storto e da diversi mondi paralleli arrivano temibili super-criminali desiderosi di distruggere Spiderman. Ma dal Multiverso, per fortuna, giunge anche un aiuto (anzi due) davvero inaspettato…

Ho già raccontato di quanto io ami il primo film che il regista Sam Raimi ha realizzato, nel lontano 2002, sull’Uomo Ragno, tanto lontano dai fumetti quanto narratologicamente efficace e molto piacevole da vedere. Non c’è quindi da stupirsi se questa nuova avventura del nostro amichevole Spiderman di quartiere mi ha incuriosito: per fortuna il film non delude le aspettative dei fan nostalgici e allo stesso tempo non si inceppa mai nel ritmo né nella trama, coinvolgente e credibile quanto può esserlo quella di un film di supereroi Marvel.

 Jon Watts, già regista dei primi due capitoli (entrambi ben fatti) della nuova saga con il bravo e simpatico Tom Holland nei panni dell’Uomo Ragno, gioca al rialzo in questa terza avventura, supportato dalla straordinaria partecipazione di attori dei precedenti film su Spiderman. Tornano infatti Tobey Maguire e Andrew Garfield, che interpretano Spiderman appartenenti ad altre dimensioni del Multiverso, e la collaborazione tra i tre è davvero una gioia per lo spirito; allo stesso modo fanno ritorno i supercattivi del passato Willem Dafoe/Goblin, Alfred Molina/Dr. Octopus, Jamie Foxx/Elektro e altri.

 Tornano anche tanti personaggi dei precedenti film e serie tv… insomma i fan dei supereroi e di Spiderman in particolare non possono restare indifferenti davanti a questa eccitante e commovente reunion, non forzata ma anzi perfettamente integrata e funzionale alla trama.    Unica piccola delusione è che l’ormai immancabile scena post titoli di coda altro non è altro che un trailer del prossimo film Marvel (in senso letterale) anziché la solita scenetta realizzata ad hoc.  

 Divertente, commovente, cadenzato, necessario (ormai lo sappiamo) per potersi godere appieno le prossime avventure dei supereroi Marvel, sempre più densamente intrecciate tra loro, e per questo molto più godibile se si sono visti i film e le serie antecedenti.

Voto: 3 Muffin

Tre amichevoli Spiderman di quartiere

Il Potere del Cane

Titolo originale: Power of the Dog

Anno: 2021

Regia: Jane Campion

Interpreti: Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee

Dove trovarlo: Netflix

Phil Burbank (Benedict Cumberbatch) è un cowboy esperto, cinico e misantropo, che non riesce ad accettare nella sua casa e nella sua vita la nuova moglie del fratello, Rose (Kirsten Dunst) e il figlio adoloscente di lei Peter (Kodi Smit-McPhee) e fa di tutto per impedire loro di sentirsi a casa. Le cose però cambiano quando Phil inizia ad affezionarsi al giovane Peter e  a stringere con lui un rapporto più profondo.

Questo film è stato candidato nel 2022 a ben 12 premi Oscar e al concorso la regista Jane Campion ha vinto la statuetta per la miglior regia. E infatti questo acclamatissimo film targato  Netflix ha nella sua veste formale il suo più grande punto di forza: ogni singolo fotogramma potrebbe diventare un dipinto da quanto è ben curato in ogni aspetto e anche per questo la visione è un piacere per gli occhi; la colonna sonora di Jonny Greenwood accompagna magistralmente questa sinfonia di colori e sfumature dei paesaggi del Montana, dove il film è stato girato. 

Il punto debole invece è la sceneggiatura, curata dalla stessa Campion (che per la sceneggiatura originale di Lezioni di Piano aveva vinto l’Oscar nel 1993) a partire dal romanzo di Thomas Savage, che ho avuto il piacere di leggere e da cui il film non si discosta mai troppo, se non, ed ecco il suo grande difetto, per voler rimarcare e sottolineare in modo ridondante e didascalico la sfaccettature del personaggio di Phil Burbank, il protagonista, che la regista stessa definisce “un grande personaggio della letteratura americana”.

Le contraddizioni di questo cowboy burbero e misantropo, per cui l’amore è un qualcosa di impossibile perché confinato al passato e al segreto, vengono strillate in faccia allo spettatore anziché essere suggerite con delicatezza come avviene nel romanzo. Dove Savage dipinge a piccole pennellate (con la sensibilità di chi ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza di essere un omosessuale in una società dominata dalla mascolinità rude e violenta) Jane Campion usa invece il rullo per comunicare al lettore il disagio e le contraddizioni del suo protagonista, arrivando ad una rappresentazione eccessivamente compiaciuta (il nascondiglio segreto zeppo di fotografie di corpi maschili) e didascalica (nel suo modo di inquadrare Benedict Cumberbatch incorniciato da elementi architettonici come John Ford faceva con il suo John Wayne, a marcare per contrasto la differenza tra quello che Phil sente di dover essere e ciò che invece prova) che rende più difficile l’empatia verso questo personaggio così complesso.

John Wayne in Sentieri Selvaggi e Benedict Cumberbatch in Power of the Dog

Anche il rapporto con il giovane Peter viene raccontato un po’ troppo frettolosamente nella sua evoluzione, togliendo allo spettatore la possibilità di seguirne mano a mano gli sviluppi e, forse, anche la sorpresa del finale, che nel libro arrivava davvero inaspettato e forse nel film no.

Sono comunque da lodare, oltre agli aspetti formali, tutte le interpretazioni: oltre a Benedict Cumberbatch che si destreggia tra sottrazione ed eccessi, anche Kirsten Dunst (sempre splendida) e Jesse Plemons danno il loro meglio nei panni di personaggi un po’ sacrificati dalla sceneggiatura che li lascia troppo sullo sfondo; il giovane Kodi Smit-McPhee recita molto bene il ruolo di Peter, l’unico oltre a Phil che abbia un po’ di spazio per dispiegarsi, anche se le battute che gli vengono assegnate spesso sono funzionali allo sviluppo della trama ma non al personaggio.

Una visione in ogni caso interessante, nel solco dei western atipici, introspettivi e ibridati con altri generi (come I Segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee ma soprattutto I Fratelli Sisters di Jacques Audiard), ma consiglio sentitamente di leggere il romanzo prima di vedere il film, che è disponibile su Netflix insieme a un Dietro le quinte di mezz’ora che poteva essere molto più interessante se non si fosse limitato ad un’intervista generica alla regista.

Voto: 3 Muffin 

Io & Sherlock Holmes – Parte 1

Basil Rathbone nei panni di Sherlock Holmes

Il mio rapporto con l’investigatore più famoso del mondo è sempre stato difficile ed ha avuto fasi alterne. Il primo approccio è stato indiretto ed è avvenuto tramite il lungometraggio Disney del 1986 Basil l’Investigatopo, in cui il topo protagonista era un investigatore che abitava proprio sotto al famoso numero 221b di Baker Street, dimora del celebre detective londinese nato nel 1887 dalla penna della scrittore Arthur Conan Doyle.

Nel cartone il personaggio di Basil è ricalcato su quello di Sherlock, soprattutto nella sua trasposizione cinematografica in cui è stato interpretato in ben quattordici film dall’attore inglese Basil Rathbone (da cui prende anche il nome). Nel film Disney compare tuttavia anche lo stesso Sherlock Holmes, o meglio, si vedono la sua ombra e quella del Dottor Watson mentre si preparano ad andare ad un concerto. “Questa musica è introspettiva e voglio essere introspettivo” dice Sherlock. “Ma Holmes” risponde Watson “Quella musica è terribilmente noiosa!”. Ho scoperto solo più tardi che, nella versione originale, la voce di Sherlock Holmes era proprio quella di Basil Rathbone (tratta da materiale d’archivio in quanto l’attore era morto nel 1967), mentre l’antagonista di Basil, il malvagio Professor Rattigan (ispirato alla nemesi letteraria di Sherlock, il Professor Moriarty), è doppiato da Vincent Price. Dunque, per molti anni, per me Sherlock Holmes non è stato altro che quell’ombra che dichiarava con serietà “voglio essere introspettivo”. Quando più tardi mi sono appassionata al genere letterario giallo è successo esclusivamente attraverso Agatha Christie, di cui in pochi anni ho letto la maggior parte dei romanzi e dei racconti. In virtù di questo mio grande amore per il genere, sembrava naturale che leggessi anche i libri del grande Conan Doyle e non avevo dubbi che mi sarei innamorata del personaggio di Holmes come lo ero di Miss Marple e soprattutto di Hercule Poirot. Decisi di iniziare dal principio e lessi il primo romanzo in cui compariva Sherlock Holmes, Lo Studio in Rosso, rimanendone cocentemente delusa. Infatti quello che amo di più dei gialli di Agatha Christie è che è sempre (con pochissime eccezioni) possibile indovinare il colpevole, o almeno tentare di farlo: il lettore svolge la sua indagine parallelamente all’investigatore, ha i suoi stessi elementi ed indizi e ha sempre la possibilità di giungere alla soluzione prima della conclusione. In Conan Doyle invece non è affatto così, Sherlock risolve il caso basandosi su indizi di cui il lettore non è a conoscenza e il colpevole a volte è un personaggio che non era mai comparso prima nella narrazione (come afferma con livore Lionel Twain/Truman Capote in Invito a Cena con Delitto).

Feci un altro tentativo con quello che forse è il romanzo più famoso, Il Mastino dei Baskerville, poi mi arresi: Sherlock Holmes non faceva per me; Conan Doyle, invece, lo rivalutai qualche anno dopo quando si rivelò inaspettatamente bravo nel raccontare di avventure e di dinosauri. Per molto tempo io e Sherlock Holmes abbiamo proceduto su strade separate, che però sono tornate inaspettatamente a incrociarsi quando Guy Ritchie ha girato il suo Sherlock Holmes, con Robert Downey Jr. nei panni dell’investigatore e Jude Law in quelli del fedele Watson.

Sembrava un’operazione alquanto azzardata, la sua, e invece mi ha davvero conquistata col suo mix di azione e ironia (chi è già stato su Cinemuffin ormai sa che Ritchie come regista mi piace molto proprio per questo). Se non ho gradito affatto la metamorfosi sancita da Kenneth Branagh per il suo Poirot, lo Sherlock di Ritchie invece mi è piaciuto molto più di quello dei libri di Conan Doyle e mi è piaciuto, appena meno del primo, anche il secondo film, Gioco di Ombre (la presenza del caro Stephen Fry nei panni di Mycroft, il fratello di Sherlock, probabilmente ha il suo peso). Similmente ho amato, almeno per le prime stagioni, la serie tv Sherlock, con i talentuosissimi Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che vince con onore la sfida di trasportare le avventure di Sherlock Holmes ai giorni nostri.

Dopo questa blasonata doppietta per un po’ mi sono distanziata da Sherlock, finché non mi sono imbattuta, poco tempo fa, in una serie tv targata Netflix, Gli Irregolari di Baker Street. In quel momento cercavo una visione leggera, e quelle otto puntate con investigatori in erba, interpretati da giovani attori sconosciuti che si trovano in qualche modo coinvolti nelle indagini di Sherlock Holmes e Watson sembrava una buona idea… E invece no! Non so da dove cominciare a elencare i difetti di questa serie, perché ce ne sono a tutti i livelli. L’idea di fondo, quella di una banda di ragazzini di strada di cui Sherlock Holmes si serve nelle proprie indagini ha le sue radici negli stessi romanzi di Conan Doyle ed è già stata portata in teatro e sullo schermo in passato. Qui però si è voluto esagerare. Inverosimiglianze storiche, per cui quattro ragazzini orfani possono vivere sereni nel centro di Londra in un ampio e comodo rifugio coperto con cucina e soppalco, o un servitore invita il suo nobile padroncino a soddisfare le sue voglie adolescenziali con un’altra ragazza di nobile famiglia anziché con una popolana. La decisione, sbagliata da ogni punto di vista, di far entrare in gioco il soprannaturale, gestito male sia dalla sceneggiatura che dagli effetti speciali e facendosi beffe della più celebre massima di Sherlock Holmes: “Eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”. Per far capire quanto brutta possa essere questa serie basta uno sguardo all’ambientazione dei sogni ricorrenti della protagonista, dotata di poteri psichici, che tanto ricorda la capanna dello Zio Tom.

La Capanna dello Zio Tom, anche quella in Baker Street

Il finale a sorpresa non sorprende proprio nessuno, i personaggi non hanno spessore e le relazioni tra loro sono traballanti, tanto da chiedersi cosa li spinga a fare le cose che fanno. E infine, il casting cosiddetto “daltonico”: il Dottor Watson è di colore, così come uno degli Irregolari (sarà un caso, ma è quello meno caratterizzato di tutti, come viene esplicitato nell’ultimo episodio, in cui è l’unico di cui non vediamo materializzarsi le paure più profonde perché, immagino, gli sceneggiatori non le avevano pensate), e le due ragazze protagoniste sono due sorelle, una con gli occhi azzurri e una con i tratti orientali. Naturalmente questa è una scelta che, anche se storicamente e biologicamente poco credibile, si potrebbe anche accettare; più difficile è abituarsi all’idea che Watson sia innamorato di Sherlock (anche questo dovrebbe essere un colpo di scena ma non serve certo essere Sherlock Holmes per capirlo già al primo episodio – anzi a dire il vero Sherlock è proprio l’unico a non capirlo). Insomma, una catastrofe: che Sherlock Holmes vi piaccia o meno, tenetevi alla larga da questa serie, di cui è già stata cancellata, fortunatamente, la seconda stagione. Dopo questa pessima esperienza, avevo bisogno di riabilitare il Detective di Baker Street ai miei occhi. E soprattutto avevo bisogno… di una bella risata!

Alla prossima puntata!

Stephen Fry nei “panni” di Mycroft Holmes

Top Gear

Premessa: io non capisco un bel niente di automobili. Ho preso la patente per pura fortuna e non distinguo una berlina da un camper… Quando mio figlio si è appassionato ai loghi delle case automobilistiche e voleva che identificassi tutte le auto che passavano per strada ho dovuto studiare come neanche per l’esame di Filologia Dantesca… Nonostante questo mi sono appassionata a Top Gear, show britannico trasmesso dalla BBC a partire dal 2002 (esiste anche un format precedente su cui la trasmissione odierna si basa) e in onda ancora oggi, anche se con conduttori diversi. In Italia viene trasmessa, in versione doppiata, nelle ore mattutine da Spike (canale 49). Cosa può mai aver suscitato il mio interesse in una trasmissione completamente incentrata sulle automobili e sui motori? Innanzitutto lo humor britannico che la contraddistingue e la simpatia di quelli che fino al 2015 ne sono stati i conduttori: Jeremy Clarkson, James May e Richard Hammond. Top Gear infatti è un programma di intrattenimento, prima che una rubrica sui motori, e tutti i servizi sono impostati e girati come gag o sketch divertenti, perfettamente comprensibili anche per chi come me non si intende di motori. E non si vedono solamente automobili, ma mezzi motorizzati di ogni genere, dalle moto agli aerei, dai treni a vapore ai carri armati… Ci sono anche le parti che parlano davvero di motori, ma lo fanno sempre con un linguaggio accattivante e accessibile. Sicuramente chi è appassionato di quattro ruote si gode Top Gear ancora più di me, ma io la trovo davvero divertentissima. C’è però una cosa che incontra anche i miei più cari interessi: ogni puntata prevede un ospite famoso che si presti a guidare un’utilitaria sul circuito di Top Gear. Tra questi vi sono personaggi celebri dello sport, della musica, della televisione, ma molto spesso anche del cinema. Faccio solo alcuni nomi che mi vengono in mente: Tom Cruise, Cameron Diaz, Charles Dance, Hugh Jackman, Benedict Cumberbatch, Simon Pegg, Michael Gambon, Helen Mirren, Kristin Scott Thomas, Stephen Fry, Ewan McGregor, Ron Howard… Insomma, quanto basta per far gongolare qualunque cinefilo. È incredibilmente divertente scoprire come Tom Cruise sia davvero un asso al volante, mentre Ron Howard un completo disastro… Naturalmente non si parla solo di automobili, i conduttori discutono con gli ospiti di qualunque argomento, dall’imbarazzo di Hugh Jackman in una sauna giapponese alle peculiari app dello smartphone di Stephen Fry… Goduria assicurata per ogni cinefilo!