Lo Strano Caso della Crasi di John Krasinski

Lo Strano Caso della Crasi di John Krasinski

L’offerta di film, serie e programmi tv in streaming è aumentata a dismisura in questi ultimi anni, questo lo sanno tutti. E’ anche vero però che non è possibile essere abbonati contemporaneamente a tutti i servizi, diventerebbe molto costoso, e inoltre, come tutti i cinefili purtroppo sanno, il tempo da poter passare davanti alla tv non è infinito… Quindi in casa mia ( e sicuramente non siamo i soli)abbiamo adottato la politica degli abbonamenti “a salti”: un mese questa piattaforma, un mese quest’altra e così via.

Il mese scorso era il turno di Prime Video. Con mia grande gioia, così ho potuto infatti proseguire la visione della serie The Office, che continuo a trovare esilarante (puntata più e puntata meno) ancora alla nona stagione. Ovviamente guardare The Office implica, oltre a un’overdose di risate e di Steve Carell, anche un abbondante contorno di John Krasinski, che nella sit-com interpreta Jim, uno dei personaggi principali: non certo il più simpatico (anzi, spesso penso che se avessi un collega come lui nella realtà lo vorrei prendere a pugni tutti i giorni) ma di sicuro quello che crea gli scherzi e i raggiri più divertenti, di solito ai danni del collega e arcinemico Dwight.

Fatalità ha poi voluto che, proprio in agosto, sia uscita su Prime Video la quarta (e ultima) stagione della serie spy-action Jack Ryan, che racconta le avventure dell’analista della CIA divenuto agente sul campo creato da Tom Clancy e interpretato, guarda caso, dal nostro altissimo e inflazionatissimo John Krasinski.

Non che io abbia qualcosa contro di lui, anzi, ho avuto modo di apprezzarlo molto come regista per A Quiet Place (mi riferisco al primo, ritengo invece che il seguito fosse pleonastico e meno originale e coinvolgente), ma in questo periodo ho spesso avuto l’impressione di vederlo ovunque. Quando me lo sono ritrovato davanti inaspettatamente anche nel Multiverso della Follia del Doctor Strange ho seriamente pensato per un attimo a un’allucinazione. Poi ho capito che, se sei fantastico, non ci puoi proprio fare niente…

Ho guardato (a tratti dormicchiando, a tratti proprio russando mi dicono) tutte le 4 stagioni di Jack Ryan. Fin dall’inizio l’ho trovato noioso, privo di umorismo (cosa che una bondiana come me non può tollerare in un film di spie), con trame complicate e poco interessanti e personaggi del tutto privi di spessore. Ciononostante, tra un sonnellino e l’altro, sono arrivata in fondo (salvo ovviamente futuri sequel/prequel/spin-off/reboot).

Che cosa poteva accadere però dopo questa krasinskica abbuffata?

Semplice: una notte ho sognato John Krasinski.

Nel sogno io mi trovavo in ufficio (!) con tutti i miei colleghi. A un certo punto uscivamo tutti sul terrazzo per osservare un fenomeno meteorologico stranissimo: il cielo era pieno di nuvole dalle forme più strane, che si muovevano a bassissima quota a grande velocità in tutte le direzioni e, quando incontravano un edificio, un albero, oppure si scontravano tra di loro, si dissolvevano schizzando milioni di goccioline d’acqua tutt’intorno.

Noi eravamo tutti ammaliati e divertiti da quello spettacolo, galvanizzati a guardare le nuvole che si rincorrevano ed entusiasti degli schizzi freschi che spesso ci colpivano.

Ma qualcuno non era altrettanto entusiasta.

In un angolo, Jack Ryan (nel sogno un nostro collega) osservava tutto con espressione indifferente e le mani in tasca. Poi, d’un tratto, decideva di uccidere la nostra gioia infantile con una lunga, monotona, prolissa e dettagliata spiegazione scientifica del fenomeno.

“Non c’è nulla di insolito. Si tratta di cumulonembi i quali, in seguito alla differenza di pressione e alla divergenza delle masse…” bla bla bla. Fine della magia.

Non ho faticato, al risveglio, a capire di aver realizzato nel mio subconscio una fusione (crasi) tra i due personaggi di Krasinski che mi avevano tenuto compagnia per tante ore: Jim Halpert, il collega d’ufficio, e Jack Ryan, l’analista che snocciola dati e teorie socio-politiche senza mai cambiare espressione o tono di voce per un attimo.

Ma la bellezza del cinema (e delle serie tv) è anche questa: a volte, anche dalle cose che sembrano più banali, noiose e insignificanti, può scaturire qualcosa di buffo e bizzarro, come questo strambo sogno.

Z – Zardoz

Z – Zardoz

“Il film di John Boorman il cui titolo inizia e finisce con la stessa lettera”. Questa è la definizione del film Zardoz che si trova nel Trivial Pursuit. Ed è anche l’incipit che ho scelto non solo per questo aneddoto, ma anche per una recensione che venne pubblicata sul mensile Ciak alcuni anni orsono, nella rubrica (oggi purtroppo cancellata) Piaceri Proibiti, che proponeva ogni mese un breve articolo inviato da un lettore che confessava di amare un certo film nonostante fosse di qualità discutibile. A Zardoz questa categoria calza a pennello: si tratta di un film di fantascienza del 1974 ambientato in un futuro in cui sul nostro pianeta un esiguo numero di uomini armati, gli Sterminatori, tiene soggiogati tutti gli altri, costretti a produrre cibo come tributo per una misteriosa divinità, che si fa chiamare Zardoz e si materializza sotto forma di gigantesco testone di pietra volante e parlante. Il protagonista, lo sterminatore Zed, interpretato niente meno che da Sean Connery, ad un certo punto si introduce nella bocca del testone di Zardoz che, volando, lo trasporta in un luogo ameno abitato da Immortali, uomini e donne che vivono nella più totale mollezza ed indolenza, dimentichi di ogni forma di piacere sessuale poiché hanno stabilito che la riproduzione è per loro una cosa superflua. Spetterà ad un non più giovanissimo Sean Connery, conciato con mutandoni color rosso ciliegia, stivaloni neri sopra il ginocchio e lunga chioma fluente, ricordare agli Immortali (comandati da Charlotte Rampling) cosa significhi abbandonarsi ai piaceri della carne, e già che c’è sovvertire anche l’intero ordine sociale tramite una grande orgia finale. Il nome della divinità Zardoz deriva da “Wizard of Oz”, perchè come nel famoso libro dietro ad una facciata di grande potere trascendente si nasconde tutt’altro. La redazione di Ciak decise di pubblicare la mia recensione, in cui definivo il film uno “s-cult”, ma io rischiai di non accorgermene, perchè quel mese non ricevetti a casa la mia copia della rivista, cui ero scrupolosamente abbonata. All’epoca frequentavo ancora l’università, ed ero riuscita ad aggregarmi ad una gita a Berlino con un corso di storia del teatro che non stavo nemmeno seguendo: ma pur di trascorrere alcuni giorni in quella splendida città ero disposta a sorbirmi improbabili sedute di meditazone collettiva e disgustosi spettacoli teatrali d’avanguardia con tanto di masturbazione dal vivo. Fu in quell’occasione (la gita, non la masturbazione dal vivo) che conobbi tre simpatiche ragazze con cui prima non avevo mai avuto occasione di chiacchierare, nonostante avessimo seguito gli stessi corsi, perchè avevano tra di loro un’amicizia piuttosto esclusiva, e non era facile entrarci in confidenza. Una di queste, quando mi presentai con nome e cognome, mi chiese: “Ma tu sei la stessa Madame Verdurin che scrive per Ciak??”. E fu così, grazie a questo rapporto estemporaneo (che si interruppe non appena rientrammo dalla gita), che venni a sapere che la mia recensione era stata effettivamente pubblicata. Chiesi il numero arretrato e poi lo feci leggere orgogliosamente a tutti gli amici e i parenti (ancora oggi mi chiedo che cosa mia nonna abbia potuto capire…) Ed ecco perchè il film Zardoz, con tutti i suoi non trascurabili difetti, mi sarà sempre così caro.

Y – Goodbye Little Yellow Bird

So bene di aver già parlato diverse volte in questo blog di Angela Lansbury, di Agatha Christie e di film gialli, ma poichè oggi Cinemuffin compie 2 anni ritengo giusto festeggiare parlando di qualcosa che mi sta molto a cuore, e naturalmente con una montagna di muffin al cioccolato.

La mia sfrenata passione per i misteri, le indagini e i delitti trova le sue radici nei primissimi anni della mia infanzia. In casa mia si guardava sempre La Signora in Giallo, il telefilm degli anni ’80 e ’90 in cui la scrittrice del Maine Jessica Fletcher, interpretata dalla megagalattica Angela Lansbury, risolveva uno o più omicidi in ogni puntata. All’epoca credevo ancora che tutto ciò che vedevo in televisione fosse reale, e mi stupivo del fatto che, per realizzare quella trasmissione, dovessero ammazzare quantomeno una persona per puntata. Murder She Wrote è ancora oggi un classico imprescindibile in casa mia (il mio figlio più piccolo lo chiama “La Signora Gialla”), nonostante io conosca ormai ogni puntata a memoria provo un gran gusto nel rivederle e trovo sempre qualche nuova chicca, ad esempio la partecipazione di qualche attore famoso (come Leslie Nielsen, James Coburn, George Clooney, Neil Patrick Harris, Brian Cranston, Ricardo Montalban….) che prima non conoscevo (o non era famoso) o qualche riferimento che in passato non avevo saputo cogliere. Per fare un esempio, in una puntata Jessica Fletcher si reca a teatro a vedere uno spettacolo di Steven Sondheim, celebre autore di musical per il quale Angela Lansbury aveva interpretato Mrs. Lovett nella rappresentazione teatrale del suo Sweeney Todd (nel ruolo che poi sarà di Helena Bonham Carter nella versione cinematografica di Tim Burton). Tutto questo ovviamente non mi aveva detto nulla finchè ero piccola, ma poi, quando mi sono appassionata ai musical, mi sono procurata quella versione teatrale di Sweeney Todd, ben sapendo che Angela Lansbury, oltre che una grande attrice, è anche una talentuosissima cantante. La sua Tale as Old as Time, dal film Disney La Bella e la Bestia, in cui dava la voce alla teiera Mrs. Brick, è da sempre uno dei classici dei miei cd home made. Poi le canzoni di Pomi d’Ottone e Manici di Scopa, interpretato sempre da lei. E anche nella Signora in Giallo in alcune occasioni avevo sentito Angela cantare, di solito quando, anziché Jessica Fletcher, interpretava la cugina irlandese Emma, che di mestiere appunto cantava in teatro canzonette orecchiabili come la squisita Goodbye Little Yellow Bird. Insomma, come si capisce Angela Lansbury/Jessica Fletcher è sempre stata una figura iconica per me, l’incarnazione di ciò che avrei voluto diventare da grande: una famosa scrittrice di gialli che con la sua intelligenza contribuisce a sgominare il crimine anche nella realtà. Fu credo più che naturale che io, da adolescente, mi appassionassi ai gialli di Agatha Christie. Lessi anche altri autori, naturalmente, ma nessuno mi dava la stessa soddisfazione. Odiavo Conan Doyle, per esempio, perchè nei gialli di Sherlock Holmes non è mai possibile indovinare il colpevole, mentre in quelli della Christie ci riuscivo (quasi) sempre. Questa grande passione per i gialli sfociò naturalmente anche nell’amore per le parodie cinematografiche dello stesso genere, e ne trovai due particolarmente ben fatte: Invito a Cena con Delitto, del 1976, con David Niven, Maggie Smith, Peter Falk, Peter Sellers, Eileen Brennan, Elsa Lanchester e Truman Capote, e Signori il Delitto è Servito del 1985, con Tim Curry, Christopher Lloyd, Madeline Kahn, Leslie Ann Warren e Eileen Brennan (sì, la stessa attrice in entrambi i film). Ho elencato il cast delle due pellicole per far capire come, già solo da questo, una cinefila come me potesse andare in brodo di giuggiole. I film erano entrambi esilaranti, e li condivisi (a ripetizione) con gli amici, finchè divennero classici del gruppo, citati in continuazione e sviscerati in ogni loro aspetto. Tra i due ci colpiva di più Signori il Delitto è Servito, in originale Clue, ispirato al famoso gioco da tavolo Cluedo, perchè qui la soluzione finale del delitto (nelle sue diverse versioni, per di più) aveva un senso. Iniziai quindi a domandarmi: e se lo organizzassi io un gioco con un delitto da risolvere? Le escape room e le cene con delitto che fioriscono oggi non esistevano ancora, perciò dovetti fare tutto da me. Ci riflettei molto a lungo, poi elaborai una formula e proposi l’idea ai miei amici, che ne furono entusiasti. Era deciso: avremmo fatto un Murder Poo (espressione del film Invito a cena con delitto, che in italiano era diventata “Assassino Party”)! Il giorno di Halloween ci facemmo accompagnare (eravamo ancora tutti minorenni) nella casa di campagna della mia famiglia, che per l’occasione era tutta per noi. Avevo assegnato anticipatamente i personaggi, in modo che ciascuno potesse prepararsi il costume: io ero la cameriera, poi c’erano il cuoco, il maggiordomo, il cugino debosciato, la governante, il giardiniere e l’amica di nobile famiglia. Tutti i personaggi, di cui avevo già scritto la storia, avevano un movente per l’assassinio del ricco e tiranno padrone di casa. A questo punto avremmo estratto a sorte i ruoli di assassino e di complice (dunque anche io, che avevo organizzato il tutto, potevo partecipare, ma non solo, potevo anche essere l’assassina!). Ciascuno doveva avere con sé un’arma, utilizzata per il delitto e utilizzabile, in caso di necessità, anche per altri omicidi) e un oggetto peculiare che doveva essere lasciato sul luogo del delitto. Spettava all’abilità dei giocatori, tutti investigatori tranne assassino e complice, trovare il legame tra l’oggetto e il colpevole. Regole molto semplici, tutto dipendeva ora dalla nostra interpretazione e dalla nostra sagacia. Il gioco fu divertentissimo, assassino e complice stavano decisamente facendola franca ma purtroppo il cadavere del giardiniere, che avevano dovuto togliere di mezzo per non essere smascherati, si rivelò inopportunamente loquace… ciononostante fu un’esperienza meravigliosa, di cui ancora oggi parliamo con piacere e che resta unica, perchè non siamo mai riusciti a ripeterla. Ho organizzato successivamente altre cacce all’assassino o cacce al tesoro, ma nessuna è stata un’immersione così totale e completa, da parte di tutti i partecipanti, in quel mondo di delitti raffinati e garbati che è il mio.

X – Dieci Piccoli Indiani

Quando avevo circa dodici anni ero una lettrice insaziabile e Mamma Verdurin ebbe l’idea di placare il mio appetito introducendomi ad una scrittrice inglese di libri gialli: Agatha Christie. Nacque immediatamente una grande passione che mi portò a leggere, se non tutti, la maggior parte dei suoi libri, compresa la sua corposa autobiografia, e successivamente, neanche a dirlo, a vedere tutti i film che ne erano stati tratti e che continuano ancora oggi a vedere la luce, con risultati, come ho già scritto, non proprio soddisfacenti.

Come facevo sempre, cercai di trasmettere il mio nuovo innamoramento letterario alla mia migliore amica, anche lei come me avidissima lettrice e cinefila.

Si instaurò quindi una fruizione di Agatha Christie a cappella: io, che li avevo già quasi tutti a casa, leggevo un libro, e subito dopo lo passavo a lei.

Arrivò naturalmente il turno del capolavoro Dieci Piccoli Indiani, la cui trama è nota: dieci sconosciuti, accettano un invito misterioso e si ritrovano a trascorrere un weekend in una villa isolata, ospiti di una persona la cui identità rimane segreta.

L’atmosfera presto si trasforma da bizzarra a inquietante: gli ospiti iniziano a morire uno dopo l’altro, e come se non bastasse le modalità dei delitti paiono ispirate da una vecchia filastrocca per bambini, in cui dieci piccoli indiani muoiono uno dopo l’altro finchè non ne rimane più nessuno. Se l’assassino non verrà trovato al più presto i dieci sconosciuti sembrano destinati alla stessa sorte…

In questi giorni mi aspetto, d aun momento all’altro, di scoprire che si sta preparando un nuovo film tratto da questo libro, in cui Kenneth Branagh interpretarà tutti e dieci i personaggi

Un giorno ricevetti dalla mia amica una telefonata a dir poco disperata: 

“Ho appena iniziato a leggere Dieci Piccoli Indiani!!”

“Bello, vero?”

“Tu non capisci, ho fatto una cosa terribile: per sbaglio ho guardato l’ultima pagina e ho letto la firma in calce alla lettera finale! Ora so chi è l’assassino e non mi potrò più godere il resto del libro!”

“…”

“Non dici niente?? Mi sono rovinata il libro!!”

“Ma no, guarda, non ti preoccupare! Alla fine del libro ci sono tante lettere diverse, ogni personaggio ne ha scritta una! Non è affatto detto che quella che hai visto tu sia quella dell’assassino!”

“Davvero? Oh, meno male! Grazie, ora posso andare avanti a leggere! Che sollievo!”

Pochissimo tempo dopo il telefono suonò ancora:

“Ciao, ho finito il libro…”

“Di già? Bellissimo vero?”

“Sì, e ti volevo ringraziare cara. Alla fine c’è una sola lettera, quella dell’assassino…”

“Già…”

“Non so come ringraziarti per esserti inventata che ogni personaggio ne aveva scritta una, così mi sono goduta il libro lo stesso. Sei una vera amica.”

“Tu per me avresti fatto lo stesso”

“Ho qui la videocassetta del film, ora che tutte e due abbiamo letto il libro, quando lo vediamo?”

“Arrivo!”

Oggi su Amazon Prime si può trovare il film Dieci Piccoli Indiani (in originale And Then There Were None) di René Clair che funziona molto bene per atmosfere, interpreti e regia. Consiglio, se possibile, di vederlo in lingua originale, perchè il doppiaggio italiano non è molto convincente.

E mi raccomando: leggete prima il libro! Ma senza sbirciare l’ultima pagina… 😉

W – Oscar Wilde

W – Oscar Wilde

Ho sempre amato moltissimo Oscar Wilde, fin da piccola, quando avevo una videocassetta con una versione animata della suo Principe Felice: mi faceva piangere tutte le volte, eppure la riguardavo all’infinito e la trovavo piena di saggezza. Poi naturalmente lo studiai a scuola, e avrei tanto voluto fare su di lui la tesina della maturità. Peccato che lo facessero già una manciata di miei compagni, per cui, siccome detesto non apparire originale, dovetti farmi venire un’altra idea (della quale parlerò in un altro momento). Naturalmente amavo tutti i suoi divertenti ma al contempo sagaci aforismi e apprezzavo The Picture of Dorian Gray, ma il mio cuore batteva per altre cose: The Importance of Being Earnest, che è tutt’oggi la sua opera che amo di più, e le Short Stories, di cui The Happy Prince fa parte (mentre The Canterville Ghost è tutt’oggi una delle storie della buonanotte per i miei bambini, anche se ho dovuto per forza di cose intervenire con un finale leggermente meno traumatizzante). In sintesi, la sua opera più divertente e quella più triste (eccezion fatta per il De Profundis, il poema scritto dopo aver scontato la condanna ai lavori forzati, che mi ha talmente emozionata da non riuscire a leggerla fino in fondo). E proprio riflettendo su questo paradosso ho capito una cosa importante sui miei gusti letterari e cinematografici: un’opera, per conquistarmi completamente, deve riuscire a farmi ridere di gusto e poi piangere intensamente. Come Moulin Rouge. In gioventù fortunatamente ero circondata da un fantastico gruppo di amici, e con alcuni di loro condividevo questo grande amore per Oscar Wilde. Per far capire la misura di questo attaccamento, dirò solo che, quando giocavamo al gioco dei mimi, utilizzavamo solo tre segni condivisi e sempre uguali: “Uomo”, “Donna” e “Oscar Wilde”, tanto sovente lo scrittore compariva nei nostri indovinelli. Anche i miei compagni di scuola, con i quali raramente condividevo degli interessi, apprezzavano Oscar Wilde, se non altro per la sua vena divertente e per il fatto che nel suo unico romanzo spiegava come si potesse all’occorrenza far sparire un cadavere sciogliendolo con determinate sostanze chimiche. Perciò non si opposero quando convinsi la professoressa di inglese dell’assoluta necessità non solo di leggere per intero The Importance of Being Earnest, ma anche di guardare in seguito il film che Oliver Parker ne aveva (molto fedelmente) tratto. Non ho molti bei ricordi legati alla scuola superiore, ma il momento in cui, dopo aver visto il film tutti insieme a scuola, i miei compagni iniziarono a cantare insieme a Rupert Everett e Colin Firth Lady Come Down è senza dubbio uno di quelli.

Labyrinthite

Ahimè, purtroppo nel mio caso non sto avendo a che fare con David Bowie e Jennifer Connelly ma con una fastidiosissima infezione (labirintite appunto) che mi sta dando orribili sintomi di sicuro non appropriati a una Madame.

Ecco perchè da un po’ di tempo purtroppo non riesco a pubblicare e a seguire i blog: mi manca moltissimo ma ancora stare davanti al pc purtroppo non mi è possibile.

Spero di tornare presto e di recuperare il tempo perduto!

A presto,

Madame Verdurin

V – Vita (il Senso della)

Il periodo in cui si verificò il passaggio definitivo dal vhs al dvd, dopo un primo shock iniziale, si rivelò una vera manna dal cielo per i cinefili. Oltre a tutti i vantaggi offerti dal nuovo supporto (migliore qualità audio e video, diverse lingue e sottotitoli, contenuti speciali), accadde che improvvisamente le periture videocassette costavano pochissimo. In edicola iniziarono a uscire diverse collane di film classici e di successi di vario genere, tutti ad appena una manciata di euro. Io e la mia più cara amica (anche lei cinefila) ne facevamo letteralmente incetta: anche se la qualità era scarsa, e il supporto ormai conclamatamente deperibile, era un’occasione troppo ghiotta per vedere nuovi film. Compravamo spesso a scatola chiusa, anche se non conoscevamo né il film né il regista né gli interpreti, assetate di nuove esperienze. Fu così che entrambe acquistammo Il Senso della Vita dei Monty Python: non li avevamo mai sentiti nominare, e in copertina c’era un disegno strano, una specie di faccione surreale. Ma era un film inglese, e sembrava molto eccentrico… perchè no? Qualche ora dopo la mia amica mi telefonò, sconvolta, quasi balbettando: “Ho visto Il Senso della vita… tu non hai idea! Ci sono i ragionieri che diventano pirati, e poi l’edificio che inizia a navigare… e poi finisce, ci sono sigla e titoli di coda… poi ricomincia, e poi c’è la metà del film… e tutti sono travestiti e cercano un pesce… tu non hai idea… lo dobbiamo vedere insieme!” Detto fatto, ero già a casa sua e lo stavamo guardando assieme. In effetti era la cosa più assurda che avessimo mai visto. Quando si viene per la prima volta in contatto con i Monty Python, non è possibile dire: “Sì, dai, carino, non mi dispiace”. O li ami alla follia oppure li detesti, non esistono vie di mezzo. O quel loro humor inglese, nero, sagace, destabilizzante e dissacrante sembra geniale e divertentissimo, oppure non lo si capisce per niente. Per noi era come aver trovato una vena d’oro. Ci procurammo immediatamente tutti gli altri film del gruppo, compresi quelli collaterali (come lo spassosissimo Un pesce di nome Wanda, con i due Monty Python John Cleese e Michael Palin) e naturalmente il cd con tutte le loro canzoni. Alcuni anni più tardi decisi di scrivere la mia tesi di laurea proprio sul film che Terry Gilliam non era riuscito a realizzare su Don Chisciotte. Quando qualche anno dopo il regista riuscì davvero a girare il suo film sull’eroe della Mancha (che non ho ancora visto ma sul quale non ho sentito che giudizi, ahimè, molto negativi) temetti che la mia tesi sarebbe stata invalidata e che mi sarei dovuta laureare un’altra volta. Forse in fondo è proprio questo il senso della vita (di un cinefilo, ma non solo): da un’occasione fortuita e inaspettata può nascere una grande, viscerale e duratura passione. Però, ancora mi domando che fine avrà fatto quel pesce…

Ambiguo ambiguo ambiguo, pesce!

U: Solit – Udine

U – SOLIT – UDINE

Trovo che sia meraviglioso il modo in cui le nostre passioni (nel mio caso, inutile dirlo, il cinema) possano avvicinare tra loro persone completamente diverse, che magari non si sarebbero mai neppure rivolte la parola se non si fossero trovate sedute vicine in una sala cinematografica o in coda per farsi firmare un autografo. Io mi ritengo una persona molto fortunata perchè sono riuscita nel corso degli anni a mantenere molte delle amicizie a cui tenevo di più. Tra queste una mia cara amica conosciuta a soli quindici anni sui banchi di scuola cui mi riferirò col suo titolo nobiliare “Contessa Arruffapopoli“. È davvero difficile immaginare due ragazze più diverse di noi per idee politiche, modo di vestire, scelta degli hobby, degli amici e dei passatempi (non sempre dei ragazzi, tuttavia, e questo portò all’unico e solo screzio tra di noi): ma proprio per questo, in questi anni, abbiamo avuto modo di arricchirci a vicenda di esperienze che, da sole, di certo non avremmo mai fatto, e di allargare l’una gli orizzonti dell’altra. Alla base di tutto, certo, abbiamo sempre avuto in comune l’amore per le famigerate materie umanistiche (che ci portò ad attraversare assieme prima il liceo classico e poi la facoltà di lettere), letteratura, teatro, e anche cinema. Fu così che decidemmo di prenderci qualche giorno tutto per noi e partecipare al FEFF (Far East Film Festival) di Udine insieme. Prenotammo un piccolo B&B e partimmo, entusiaste e curiose. Eravamo partite con un giorno di anticipo per avere il tempo di visitare la città, ma Udine si rivelò una delusione, una cittadina piccola e con poche attrattive, giusto appena animata da alcune bancarelle a tema orientale in occasione del festival. Avremmo dovuto sospettarlo quando, arrivando dalla stazione verso il centro, ci imbattemmo in una gigantesca scritta su un muro: SOLIT – UDINE. Insomma, più chiaro di così… Poi iniziò il festival, e per quattro giorni non ci fu più tempo per niente altro, a malapena per mangiare. Le proiezioni  iniziavano alle dieci del mattino e continuavano senza soluzione di continuità (giusto un’oretta scarsa per il pranzo) fino a sera. Fu un’esperienza immersiva stupenda, di quelle che poi, una volta messa su casa e famiglia, diventano un’utopia. Vedemmo film belli e brutti, divertenti e tristi, violenti e romantici… si passava da un genere all’altro, da un paese orientale all’altro, senza respiro. Ricordo che, mentre passavamo come al solito di fretta da una sala all’altra, dissi alla Contessa Arruffapopoli: “Finora il film che mi è piaciuto di più è stato quel drammone vietnamita… quello che abbiamo visto l’altro ieri…”. La mia amica mi guardò sorniona e mi corresse: “Guarda che lo abbiamo visto stamattina!”. In contesti del genere il tempo si dilata, e si finisce per perderne completamente la cognizione. Ritornammo a casa stordite, un po’ confuse, ma sicuramente felici e soddisfatte dell’esperienza. Ritentammo l’anno successivo, ma lo sciopero dei treni ce lo impedì. Così quei quattro giorni restano unici e memorabili, come esperienza culturale senza dubbio ma anche come tassello di una grande e duratura amicizia. Alla faccia della solit-Udine.

T – Un Uomo Tranquillo

Ricordo molto bene cosa provai quando vidi dal vivo la scritta bianca “Hollywood” sulle colline di Los Angeles. Ero del tutto sopraffatta, gli occhi si erano riempiti di lacrime ma non potevo piangere, e non riuscivo a convincermi di essere davvero lì, nel mitico luogo su cui avevo letto, studiato e fantasticato così tanto. Sapevo di avere la bocca spalancata, proprio come una bimba piccola, ma non potevo richiuderla. Poi, ad essere sinceri, Los Angeles non mi piacque. È una città brutta, sporca, in cui nessuno parla inglese, in cui hai la continua sensazione che se giri l’angolo sbagliato sarai come minimo rapinato, in cui anche i figuranti che posano per le foto con i turisti sono sbronzi già dal mattino, e nemmeno la fasulla e patinata Beverly Hills mi ha fatto cambiare idea. Per fortuna però quella non era l’unica tappa del meraviglioso viaggio che feci con i miei genitori, mio fratello e il mio futuro marito. A New York potei vedere a teatro lo spettacolo ispirato al film Frankenstein Junior di Mel Brooks, uno dei grandi cult di casa Verdurin. Ma la parte più bella fu quella del viaggio in auto attraverso il deserto, lungo la mitica Route 66, verso il Gran Canyon e tutti i luoghi prediletti da John Ford, il maestro del western classico. Una sera ci fermammo in un locale così country che più country non si poteva, tanto che ci guardavamo dicendo: «Ci manca solo che ora suonino Rawhide, come nei Blues Brothers!» Neanche il tempo di finire la frase che la band passa senza colpo ferire da Country Roads a Rawhide. Noi ci scambiavamo occhiate incredule, con grandi sorrisi stampati sul viso. I miei genitori ballarono. Una serata indimenticabile. Per tutta la durata del viaggio mi sentii dentro ai film che conoscevo tanto bene, e mi piacque tutto. Anche Las Vegas. Anzi, soprattutto Las Vegas. Non ho giocato d’azzardo nemmeno una volta, è una cosa che non riuscirò mai a trovare emozionante: conosco un milione di modi più divertenti per buttare via i soldi! Per esempio la meravigliosa sala giochi del Circus Circus di bondiana memoria, in cui sparare ai bersagli o lanciare polli di plastica nelle pentole: questo sì! Rimasi molto delusa da Los Angeles, è vero, ma c’è un ricordo che me la rende cara ugualmente: quella di Papà Verdurin che, inginocchiato davanti alla stella di John Wayne sulla Walk of Fame, rende omaggio al suo grande eroe, il Duca, il figlio di Katie Elder, il Grinta, l’Uomo Tranquillo. 

Quando, da piccola, andavo in vacanza al mare, il mio divertimento preferito era andare alla sala giochi Las Vegas (guarda caso) e salire sul calesse da cui sparare agli indiani: quanto mi piaceva! Poi però arrivò il film Disney Pocahontas e tutto cambiò: scoprii cosa era capitato davvero ai nativi americani, mi interessai alla loro storia e lessi molti libri. Cinematograficamente parlando questo significò passare da John Ford a Soldato Blu, Il Piccolo Grande Uomo, Un Uomo Chiamato Cavallo e Balla coi Lupi, per poi rendermi conto che, in realtà, il Duca aveva, anche se alla lontana, anticipato anche questo: quando in Sentieri Selvaggi il suo Ethan ritrova la nipotina, che dopo aver vissuto per anni con gli indiani è diventata una di loro. Noi guardiamo Ethan sollevarla con impeto e ci domandiamo: ora la ucciderà o la abbraccerà? Potrà accettare di avere per nipote uno di quei selvaggi che ha da sempre odiato e combattuto? Il genere western, come tutti gli altri generi a lungo (e a torto) considerati “minori”, si incarica di raccontare le contraddizioni e le idiosincrasie più profonde della società, della nostra prima che di quella del selvaggio West. John Wayne, lungi dall’essere solo un cowboy duro e tutto d’un pezzo, ha scandalizzato parteggiando per una prostituta in Ombre Rosse, ha fatto sbellicare dalle risate in Un Uomo Tranquillo, ha fatto commuovere in Il Grinta. Non è certo un caso se, in Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco di Mel Brooks, quando lo sceriffo vuole convincere i personaggi a mettere a rischio le proprie vite li esorta così: “Per John Wayne lo fareste!” Noi, a casa Verdurin, lo faremmo.

S – Fuorilegge per Amore (di Spiderman)

Oggigiorno ci siamo abituati ad avere tutti i film nuovi sempre a nostra disposizione. Passa sempre meno tempo tra l’uscita cinematografica (che sempre più spesso avviene in contemporanea, o viene addirittura sostituita, da quella su piattaforma) e l’uscita del blu ray, e tutto è sempre disponibile, più o meno lecitamente, su internet. Ma una volta non era così, perchè se ti innamoravi di un film visto al cinema non potevi far altro che ritornare a vederlo di nuovo in sala (come facemmo per esempio per la saga de Il Signore degli Anelli, ciascun episodio non meno di tre volte) oppure rassegnarti ed attendere pazientemente il rilascio per il noleggio e l’home video. Nel lontano 2002, prima dell’avvento dell’era dei supereroi cinematografici dei vari universi, un certo Sam Raimi realizzò un film sull’Uomo Ragno. Io non sono mai stata una lettrice di fumetti, ma ero cresciuta con i cartoni animati di Spiderman ed ero molto affezionata a quel personaggio, così accessibile e simpatico. Una mia amica invece aveva una gran cotta per l’attore scelto per interpretarlo, Tobey Maguire. Lei infatti aveva un debole per i bravi ragazzi, scarsi di pettorali ma pieni di occhi azzurri (ciascuno infatti può avere un motivo diverso per pagare il biglietto per Il Signore degli Anelli tre volte). Avevamo dunque entrambe grandi aspettative; lei però si era organizzata meglio. Quando la vidi arrivare davanti al cinema con una borsa enorme pensai che fosse piena di snack da sgranocchiare durante il film. Invece, quando ci fummo sistemate ai nostri posti, con circospezione estrasse dalla borsa un mangianastri, di quelli per bambini, di plastica colorata e con il microfono a gelato. Mi spiegò che non poteva certo restare troppo tempo senza sentire la voce dello stupendo Tobey (anche quella del doppiatore evidentemente andava bene). Quando si spensero le luci protese il microfono verso lo schermo e premette il tasto Rec. Rimase così, come se stesse intervistando la poltroncina di fronte, fino a che non terminò il nastro della cassetta, prima della fine del film. Ma lei si ritenne molto soddisfatta di quel suo stratagemma. Rifiutai con quanto più garbo possibile la copia della cassetta che si offrì di farmi, e con aria vagamente colpevole uscimmo dalla sala. Ancora oggi resto convinta che il primo Spiderman di Sam Raimi sia uno dei film di supereroi più belli. Forse non era fedele ai fumetti, ma era coerente nella sceneggiatura (cosa che certo non si può dire dei film con il successore di Tobey Maguire, Andrew Garfield), divertente, romantico, coinvolgente. La scena del bacio a testa in giù tra Spiderman e Mary Jane (una bellissima e dolcissima Kirsten Dunst) è diventata iconica, ed è stato a partire da questo film che l’invasione dei supereroi ha avuto inizio. Oggi, con gli Smartphone, sarebbe fin troppo facile rubare un’immagine o qualche minuto di audio ad un film visto al cinema, e comunque nessuno sente più il bisogno di farlo. E molti bambini oggi non sanno nemmeno cosa sia un mangianastri: un apparecchio elettronico con cui è possibile ascoltare canzoni e favole, registrare voci, musica e suoni, e soprattutto rubare un ricordo speciale.

E voi cosa avete fatto a San Valentino?