Due Estranei

Titolo originale: Two Distant Strangers

Anno: 2021

Durata: 32 minuti

Regia: Travon Free, Martin Desmond Roe

Interpreti: Joey Badass, Andrew Howard, Zaria

Dove trovarlo: Netflix

Questo cortometraggio ha da poco vinto l’Oscar della sua categoria, usando un approccio diverso per raccontare la problematica, più che mai attuale negli Stati Uniti, delle violenze da parte delle forze dell’ordine ai danni delle persone di colore. Negli ultimi anni l’Academy si è dimostrata particolarmente sensibile alle tematiche affrontate dalle opere in concorso, e Due Estranei non fa eccezione, cavalcando senza dubbio l’onda di un argomento già nel cuore della politica e del giornalismo, ma utilizzando un punto di vista diverso, più cinematografico che documentaristico, per avvicinare il pubblico ad un argomento caldo come quello della discriminazione razziale.

Il giovane Carter (Joey Badass) si risveglia nel letto della bella Perri (Zaria) dopo aver passato la notte con lei. La ragazza lo invita a restare a colazione, ma Carter, sebbene molto preso da lei, rifiuta perché ansioso di tornare a casa dal suo cane, Jeter, rimasto solo dalla sera precedente. Carter si veste ed esce, ma non appena arriva in strada viene aggredito da un poliziotto, l’agente Merk (Andrew Howard) che lo accusa immotivatamente di possesso di droga e lo immobilizza. Carter si ritrova a terra, con il poliziotto che schiaccia il suo collo impedendogli di respirare, fino a che non muore. Si risveglia però nel letto di Perri, ancora una volta. Convinto che si sia trattato di un brutto sogno, lascia nuovamente la casa della ragazza per tornare da Jeter, e di nuovo viene fermato dall’agente Merk, che questa volta gli spara e lo uccide. Di nuovo, Carter si risveglia nel letto di Perri. Si rende conto di essere bloccato in un loop temporale, in cui, qualunque cosa faccia, l’agente Carter alla fine lo uccide. Ma il ragazzo non si arrende, deciso a ritornare a casa dal suo cane…

La trama, sebbene non sia originale nel contesto del cinema di fantascienza, trova però un’applicazione nuova nel campo della denuncia sociale; d’altro canto la fantascienza, come tutti i generi cinematografici un tempo considerati “minori” (horror, western…) ha sempre utilizzato metafore per parlare, in realtà, non di pianeti lontani ma del mondo in cui viviamo. Allo stesso modo questo cortometraggio utilizza lo stratagemma narrativo del loop temporale per rappresentare la condizione, apparentemente senza via d’uscita, della popolazione di colore negli Stati Uniti, che viene ancora oggi discriminata talvolta con brutalità e violenza. Il rimando alla morte del giovane George Floyd è molto diretto, e nei titoli di coda scorrono molti altri nomi di persone di colore uccise arbitrariamente dalla polizia americana negli ultimi anni. Two Distant Strangers (il titolo originale sottolinea come i due uomini non siano solo sconosciuti ma siano anche molto distanti tra loro, nonostante si trovino continuamente a stretto contatto) ha un valore civile più alto di quello artistico, e si potrebbe discutere su quale dei due sia stato premiato, ma testimonia, oltre alla condizione difficilissima in cui versa una parte della popolazione statunitense, anche la ricerca, che in questi anni procede per tentativi, a volte maldestri, di un’espressione artistica per tale condizione. Considerando anche la breve durata, Due Estranei è senza dubbio una visione interessante, che lascia allo stesso tempo amareggiati ma anche speranzosi sia nei confronti della situazione delle discriminazioni razziali sia verso quella della cinematografia odierna. Dopo diversi esempi, visti in questi ultimi anni, di rielaborazioni storiche che annullavano le differenze razziali (come il musical Hamilton o le serie Hollywood e Bridgerton), ora assistiamo a nuovi esperimenti cinematografici che tentano di elaborare una condizione civile ed esistenziale difficilissima. Sono sicura che, quando l’arte troverà il modo giusto per incanalare questa condizione, il risultato (forse non solo artistico) sarà ragguardevole.

Buon 2021!

Niente può impedire a Mel Brooks di brindare in Silent Movie

Non saranno le ultime e non son certo le prime

Ma gli auguri di buon anno scelgo di farli in rime

E per quanto nè Stilnovo nè Dadaismo sia

È sempre piacevole leggere una poesia

(ricordo che a scuola di componimenti ne recitavamo tanti

Ben incollati sulla schiena del compagno davanti)

Soprattutto se l’anno che stiamo per salutare

Come questo 2020 è proprio da dimenticare:

Con la pandemia, la crisi e poi anche il terremoto.

Con amici e parenti abbracci solo da remoto.

C’è comunque molto di cui esser grati

Anche solo il fatto di non essere ammalati

E di poter contare sugli affetti di amici e famiglie

Mentre si costruiscono lunghe piste con le biglie

E si fanno coi bambini mille giochi e lavoretti

Per far passare il tempo quando in casa si è costretti.

Stasera tutti quanti in casa brinderanno

E saluteranno con grande speranza il nuovo anno.

Per me questo 2020 è stato pieno di sorprese

E tutto è iniziato con un dolcetto inglese:

Cinemuffin e i suoi amici mi hanno dato grande soddisfazione

Anche nei momenti di sconforto e frustrazione:

condividere la mia passione per la settima arte

Ha rimescolato in tavola tutte le carte

Portando nuovi amici, curiosità e divertimento

In questo anno che si conclude con un stellestrisciavvicendamento

E chissà se il nuovo Presidente americano neoeletto

Ci diletterà anche lui con una canzone o qualche balletto.

Il 2020 è stato molto brutto ma si trova sempre anche il bello

Per esempio in un bell’uomo che di nome fa Rastrello.

Con Charlize Theron e i suoi amici immortali

Di adrenalina e di azione ne abbiamo avute a quintali.

Non sono mancate nemmeno le storie vere

Come quella di Ivan, gorilla pittore, o di Quarto Potere:

Con Mank David Fincher ci ha portati nel passato

Con un bianco e nero che anche al presente sembra adeguato

Ma a tutti noi il colore piace molto di più

Così arriva a velocità supersonica un porcospino tutto blu.

Già, tutti noi preferiamo un mondo a colori

E Hollywood ce ne offre uno contro tutti i malumori.

Abbi Fede” ci ha detto Pasotti “il Bene vince sempre sul Male”

E infatti il mitico Kurt Russell salva di nuovo il Natale.

Con il bellissimo Soul della Disney si conclude questa annata

Di cinema e di vita che non verrà presto dimenticata.

Questa sera niente conga nè baci sotto il vischio

Perché è bene evitare di ogni contagio il rischio

Ma questo non vieta di augurare che il 2021

Porti serenità, gioia e bei film per ognuno!

E mentre aspettiamo che riaprano le sale

A fare un bel brindisi non c’è niente di male!

Auguri di buon anno da Cinemuffin!

Mank

Anno: 2020

Regia: David Fincher

Interpreti: Gary Oldman, Lily Collins, Amanda Seyfried, Tom Burke, Tom Pelphrey, Charles Dance

Dove trovarlo: Netflix

Immobilizzato a causa di uno sfortunato incidente d’auto, lo sceneggiatore Herman Mankiewicz (Gary Oldman) viene recluso dal giovane regista esordiente Orson Welles (Tom Burke) in un tugurio a Victorville, California, affinché possa terminare nei tempi previsti di scrivere la sceneggiatura del film con cui Welles intende debuttare a Hollywood: Quarto Potere.

Ricordo un episodio di alcuni anni fa dello show di David Letterman in cui il conduttore e la sua immancabile spalla Paul Shaffer si stupivano del fatto che fossero già stati realizzati ben sei seguiti (oggi sono sette, con altri due in in cantiere) del film Fast & Furious. “Ai miei tempi” sentenziava Letterman “non si facevano i sequel, nemmeno dei film più belli. Vi immaginate un Citizen Kane 3: Rosebuddier!?!” (in italiano si potrebbe tradurre con “Quarto Potere 3: Sempre più Rosabella!”). Questa battuta mi è rimasta impressa perché sono sempre stata tra quelli che considerano quel film un grande capolavoro e in cuor mio ho sempre sperato di non vederne mai un seguito o un remake. Con Mank però siamo ben lontani dal territorio delle operazioni arbitrarie e meramente commerciali cui Hollywood ci ha abituati, e restiamo piuttosto nel campo dei grandi film. Fin dai titoli di testa di Mank infatti il regista David Fincher ci catapulta nel mondo dei classici di Hollywood con un bianco e nero pulito, una colonna sonora rispettosa, dialoghi incisivi e interpreti di classe. Il mitico Orson Welles (interpretato benissimo da Tom Burke), che in vita sua non è mai riuscito, nemmeno nei ruoli più marginali delle produzioni televisive più infime, a non troneggiare su tutto e tutti, questa volta rimane davvero sullo sfondo, per lasciare le luci della ribalta a un personaggio molto meno conosciuto ma che ha avuto una parte essenziale, come scopriamo qui, nella realizzazione del suo capolavoro indiscusso: Herman Mankiewicz. Soprannominato “Mank”, Herman era il fratello dell’influente produttore e regista Joseph Mankiewicz (interpretato da un bravo Tom Pelphrey); quando Welles lo scelse per scrivere la sceneggiatura di Quarto Potere Mank era conosciuto a Hollywood, oltre che per il suo carattere scorbutico e cinico (ma, come scopriremo, solo in apparenza) e il suo amore per i liquori forti, per aver prodotto i film dei fratelli Marx. Ma Welles, che aveva strappato alla RKO un contratto favoloso che gli garantiva piena libertà riguardo ad ogni aspetto del suo film, non si fece problemi ad ingaggiare Mank, salvo poi, a riprese ultimate, tentare di attribuirsi interamente il merito della sceneggiatura. Mank ottenne tuttavia di essere accreditato come co-autore e questo gli permise di ricevere nel 1942 l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale insieme a Orson Welles (che resterà l’unico riconoscimento dell’Academy per il regista, mentre Mank otterrà un’altra statuetta l’anno successivo per la sceneggiatura di L’Idolo delle Folle); ciononostante il regista nelle varie interviste continuò a definirsi l’unico autore di Quarto Potere, e ad attribuire al massimo a Mank il merito della prima stesura (che si intitolava American) o di aver avuto l’idea di “Rosebud”. Questo film racconta il periodo in cui Mank, costretto a letto da una gamba ingessata, detta ad una solerte segretaria (una splendida e incorruttibile Lily Collins) la prima stesura del copione di Quarto Potere. La sua opera non è ancora terminata che già iniziano ad arrivare da varie parti pressioni per il suo accantonamento: tutta Hollywood infatti sa che il personaggio di Kane è ispirato al magnate della stampa William Randolph Hearst (un fantastico Charles Dance, che grazie a un minimo trucco diventa molto somigliante al vero Hearst e con poche battute e la storia della scimmia ammaestrata domina con alta classe la scena), che come prevedibile non vede di buon occhio questo interesse per la sua persona e per quella della sua amante, l’attrice Marion Davies (una Amanda Seyfried mai così bella). Mank, che prima di diventare sceneggiatore e produttore era stato giornalista, conosceva di persona Hearst e la moglie, oltre a tutti gli altri personaggi influenti nella Hollywood dell’epoca, e probabilmente anche molti segreti che non dovevano essere rivelati. Le scene che potrebbero sembrare esagerate, come quella della presentazione di Louis B.Mayer (Arliss Howard) o quella della grande festa nella Casa Grande a San Simeon di Hearst (cui Welles si ispira per realizzare la Xanadu di Charles Foster Kane), sono in realtà del tutto credibili: la Hollywood degli anni d’oro non realizzava le sue grandiose messe in scena solo sotto i riflettori, ma anche nel retrobottega. Welles ha raccontato che le riprese di Quarto Potere furono accompagnate da diversi episodi sgradevoli, tra cui un tentativo di incastrare il regista con delle foto compromettenti: se il regista non fosse stato avvisato da un poliziotto, al suo rientro in albergo avrebbe trovato nella sua stanza un’adolescente svestita e dei fotografi pronti ad immortalare la scena. Dunque tutti i tentativi di dissuasione che vediamo nel film, anche ad opera del fratello Joseph, sono del tutto realistici. Immagino che Gary Oldman, come il suo personaggio, potrebbe arrivare a stringere la statuetta dorata dell’Academy grazie alla sua ottima interpretazione di un personaggio non facile, che riesce a strappare la simpatia del pubblico nonostante sia un ubriacone misantropo e bugiardo che spesso tratta malissimo moglie e amici e che vive in bilico tra l’odio per il sistema e l’attrazione irresistibile verso la scintillante Hollywood, in cui rimarrà fino alla sua morte. Mank è un film fatto bene sotto ogni punto di vista, che con continui flashback spiega chi fosse Herman Mankiewicz e come funzionassero gli ingranaggi della dorata Hollywood degli anni ‘30 e ‘40 mentre racconta una storia umana di amore/odio verso il sistema cui è difficile restare indifferenti. Adatto anche a chi non dovesse aver mai visto Quarto Potere (ma dopo aver visto Mank sono sicura che tutti saranno ansiosi di recuperarlo), imprescindibile per chi ama Welles, succulento per tutti coloro che amano conoscere i segreti dei grandi capolavori della storia del cinema. Dopo la visione consiglio una corsa in libreria alla ricerca di It’s All True, raccolta di intervista fatte a Orson Welles nel corso degli anni, che, anche se non chiarisce il rapporto conflittuale tra il regista e Mank, svela moltissimi ghiotti aneddoti sulla vita e il lavoro del grande regista. Auguro a Mank un grande successo, anche se non ha potuto uscire nelle sale ma è arrivato direttamente su Netflix: ma dopotutto anche Quarto Potere fu un mezzo fiasco al botteghino, mentre oggi è costantemente nei primi posti di ogni classifica di film più belli, oltre ad essere in tutti i manuali di cinema per le sue innovazioni nel campo delle inquadrature, del montaggio, dell’utilizzo dello spazio. Il film di David Fincher forse non farà la storia del cinema ma certamente merita di essere visto, è un’accurata macchina del tempo per rivivere i fasti di Hollywood senza tentativi arbitrari di mostrarla non per come era ma per come oggi vorremmo fosse stata (vedi la serie, sempre Netflix, Hollywood).

Voto: 4 Muffin

Hollywood

Titolo: Hollywood (serie TV)

Anno: 2020

Creatori: Ryan Murphy, Ian Brennan

Cast: David Corenswet, Darren Criss, Laura Harrier, Joe Mantello, Dylan McDermott, Jake Picking, Jeremy Pope, Holland Taylor, Samara Weaving, Mira Sorvino, Patti Lupone, Jim Parsons, Queen Latifah

Dove trovarlo: Netflix (ancora senza il doppiaggio italiano a causa dei rallentamenti dovuti al Covid-19)

Fin dai suoi albori Hollywood ha fornito all’America i mezzi più potenti a disposizione per riscrivere la storia più o meno recente assolvendo ed incensando se stessa. Basti pensare alla pietra angolare Nascita di una Nazione di D. W. Griffith, del lontanissimo 1915, che celebra il razzismo del Ku Klux Klan; o a film di guerra come Berretti Verdi, in cui si tenta di utilizzare il carisma di John Wayne per sostenere l’intervento in Vietnam; o ancora all’accidentalmente escluso dal vastissimo catalogo di Disney Plus La Capanna dello Zio Tom, che racconta come fosse bello e divertente per gli schiavi neri vivere nelle piantagioni di cotone. In tempi più recenti tuttavia il revisionismo storico ha cambiato orientamento, ed abbiamo assistito per esempio all’assassinio di Hitler (non a caso in un cinematografo) prima che desse inizio alla seconda guerra mondiale in Bastardi Senza Gloria. Molte serie tv (Black Mirror, The Man in the High Castle) hanno seguito l’esempio di Tarantino e immaginato un diverso presente (o futuro) basato su un differente passato. Hollywood invece non ci racconta il presente o il futuro, ma un singolo evento del passato che avrebbe potuto cambiare completamente il corso dello sviluppo della cinematografia e della storia tout court, la realizzazione di un film, e lascia allo spettatore immaginare come avrebbe potuto essere il nostro presente se Meg fosse davvero stato girato alla fine degli anni ‘40. Probabilmente i movimenti #metoo e #girlpower non esisterebbero, perché non ce ne sarebbe bisogno. Hollywood mescola i fatti e i personaggi reali con quelli di fantasia, con l’effetto bizzarro di creare nella prima parte un mondo così realistico e triviale da risultare insopportabile e nel finale uno così infantilmente equo e bello da essere altrettanto difficile da accettare. La serie è dunque squilibrata e piena di difetti sostanziali, ma viene salvata in corner dalla bravura degli attori e dalla simpatia di alcuni personaggi. Tutti gli interpreti, più o meno conosciuti, sono davvero bravi, perciò mi soffermerò solo su quelli che mi hanno colpito di più. Jake Picking è efficace nei panni di un giovane e insicuro (soprattutto a causa della sua omosessualità) Rock Hudson, di cui viene raccontato con veridicità l’inizio della carriera sotto l’ala assai protettrice dell’agente Henry Willson (di cui parleremo ancora) ma di cui viene inventato il pubblico coming-out con fidanzato di colore. Parlo poi di quella che per me, per una serie di coincidenze, è diventata l’attrice del momento, Holland Taylor, che interpreta un personaggio di finzione ma del tutto realistico, una sorta di buona madrina per tutte le vittime del grande sistema degli studios hollywoodiani che rischia di ritrovarsi sola. Dico rischia perché alla fine di Hollywood (segue spoiler) ogni personaggio, nessuno escluso, riesce a realizzare il suo sogno, trovando l’amore, la gloria o la redenzione, nel più sfacciato degli happy ending, che però, devo essere sincera, mi ha dato una certa non giustificata soddisfazione emotiva. Parlando di questa serie è impossibile non citare l’attore Jim Parsons (per tutti lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory) che interpreta Henry Willson, un agente di spettacolo realmente esistito che si approfittava spesso dei suoi clienti, Rock Hudson compreso: la scena in cui Parsons si esibisce nella danza di Salomè tornerà nei miei incubi negli anni a venire. Ruolo marginale come minutaggio ma fondamentale per Queen Latifah nei panni di Hattie McDaniel, la prima attrice di colore a vincere un Academy Award per il ruolo di Mammy in Via col Vento del 1939 come miglior attrice non protagonista, che nonostante questo, proprio come racconta il suo personaggio, non ebbe il permesso di entrare nel salone della cerimonia: qui Hattie si prende virtualmente una rivincita sull’Academy. Anche tenendo conto di tutti i suoi difetti e della sua premessa non necessariamente condivisibile, che si basa su un film fittizio intitolato Meg per il quale, alla fine degli anni ‘40, tutti alla fine vincono un Oscar, compresa la protagonista di colore, il protagonista esordiente reduce dal conflitto mondiale, lo sceneggiatore di colore e omosessuale, l’attrice asiatica e il regista in parte filippino, credo sarà difficile per i cinefili astenersi dalla visione, se non altro per la curiosità di vedere insieme tanti bravi attori del grande e piccolo schermo e tanti personaggi della vecchia Hollywood. C’è però una mancanza secondo me imperdonabile, soprattutto considerando il fatto che Ian Brennan e Ryan Murphy sono stati anche gli autori di Glee e che sappiamo per certo che alcuni degli interpreti hanno grandi abilità canore (abbiamo apprezzato la voce d’angelo di Darren Criss proprio in Glee, quella di Queen Latifah in Chicago, e perchè no, Jim Parsons nel cult Soffice Kitty): nessun numero da musical hollywoodiano. Peccato.