Interpreti: Steve Carell, Emma Stone, Andrea Riseborough, Bill Pullman, Alan Cumming
Dove trovarlo: Disney Plus
Basato sulla vera storia della partita di tennis disputata nel 1973 tra la ribelle Billie Jean King, fondatrice della Women Tennis Association, e il vincitore di Wimbledon Bobby Riggs. Il match, definito dai media “la battaglia dei sessi”, venne vinto da Billie Jean al terzo set.
Non credevo potesse esistere un altro film che mi facesse appassionare ad un partita di tennis dopo Delitto per Delitto di Alfred Hitchcock. E la cosa è ancora più interessante perché, nel caso di La Battaglia dei Sessi, già conoscevo il risultato del match. Il film infatti racconta una storia vera e lo fa rimanendo aderente alla verità dei fatti. D’altro canto il contrario sarebbe stato molto difficile, poiché quel match è stato un vero fenomeno mediatico ampiamente seguito, discusso e documentato. Le interviste alle celebrità, tra cui Lloyd Bridges e Ricardo Montalban, che pronosticano la vittoria di Bobby Riggs sono autentiche e fondamentali per capire come l’idea che l’uomo fosse fisicamente, oltre che moralmente e intellettualmente, superiore alla donna era profondamente radicata e conclamata: parliamo di meno di cinquant’anni fa.
La consolidata coppia di registi Jonathan Dayton e Valerie Faris ha alle spalle un nutrito passato alla regia di videoclip e video di concerti (R.E.M., Red Hot Chili Peppers, Offsprings per citarne alcuni). Lo sceneggiatore Simon Beaufoy invece ha molta esperienza nel raccontare spettacoli di altro genere, show televisivi che però vanno ben oltre l’intrattenimento e affondano le radici nella vita reale dei protagonisti (Full Monty, The Millionaire e Hunger Games sono ottimi esempi di questa spettacolarizzazione della sofferenza e della lotta degli altri). Nel passato dei due registi c’è anche un altro film molto pertinente: Little Miss Sunshine, nel cui cast c’era anche un grandioso Steve Carell, che qui ritroviamo nei panni del tronfio, maschilista e vanesio Bobby Riggs.
Steve Carell, che tra l’altro è fisicamente molto somigliante al vero Bobby, offre un’ottima performance (anche tennistica) nei panni sgradevoli di un campione che gioca più per la fama e l’adrenalina (scommettitore incallito, non manca mai di puntare su se stesso) che per amore dello sport.
Dall’altro lato del campo troviamo Billie Jean King, molto più giovane, competitiva e amante del tennis come sport, anche se riconosce benissimo il potenziale mediatico e sociale di questo incontro sui generis che vede sfidarsi uno contro uno un uomo e una donna. A interpretare Billie Jean è Emma Stone, che oltre a disputare un ottimo incontro sportivo è perfetta per rendere sia la determinazione che l’egocentrismo della protagonista, che nella sua smania di vincere la sfida travolge il devoto (e affascinante) marito tradendolo con la sua parrucchiera, salvo poi voltare le spalle anche a lei quando la pressione in vista del grande match aumenta.
Con queste premesse, se l’esito del match è risaputo, non lo è il destino personale dei giocatori e degli altri personaggi coinvolti, che ci viene svelato, con grande soddisfazione, prima dei titoli di coda: l’attesa di conoscere cosa ne sia stato del solerte marito tradito, della dolce parrucchiera, del campione rifiutato dalla moglie e della campionessa del tennis e del femminismo è la prova che il film riesce a far appassionare lo spettatore ai personaggi (tutti veri) che racconta e alle loro piccole grandi storie.
Molti personaggi secondari, alcuni interpretati da ottimi attori (Alan Cumming, Sarah Silverman e Bill Pullman tra gli altri) avrebbero meritato ancora più spazio perché sono stati tratteggiati con molta nitidezza, forse proprio perché ricalcati su persone reali.
Quello che più ho apprezzato di questo film è il suo non voler essere un’apologia modaiola di chi va contro corrente a prescindere; La Battaglia dei Sessi racconta invece due persone autentiche, con i loro grandi pregi e grandi difetti, che combattono per realizzare i propri desideri senza che ci sia un buono o un cattivo, come ci dimostra l’affettuosa stretta di mano finale o il destino roseo riservato ad entrambi.
Non una battaglia “contro” ma una battaglia “per”, in cui la persona dall’altro lato della rete non è il nemico ma solo un avversario.
Come nella celebre fiaba La Lepre e la Tartaruga, Billie Jean riesce a battere l’avversario fisicamente più forte e con maggior esperienza grazie alla sua costanza e perseveranza, oltre che all’astuzia di stancare fisicamente Bobby facendolo correre avanti e indietro per il campo (consapevole del fatto che il suo allenamento non era stato altro che uno spettacolo d’intrattenimento). Questa mi sembra una grande lezione, valida non solo per il tennis.
Per l’aderenza alla verità dei fatti (senza per questo diventare mai noioso né documentaristico), per le ottime interpretazioni a tutti i livelli, per come la partita viene resa accessibile anche a chi non capisce nulla di tennis, mi sento di consigliare questo film.
Interpreti: Amy Adams, Gary Oldman, Anthony Mackie, Julianne Moore, Jennifer Jason Leigh, Fred Hechinger, Wyatt Russell
Dove trovarlo: Netflix
Anna Fox (Amy Adams) è una psicologa infantile che soffre di agorafobia e da anni non esce più di casa. Trascorre il tempo in compagnia del suo gatto, guardando la televisione, bevendo finché non viene raggiunta dal sonno e dagli incubi: la massiccia terapia di psicofarmaci cui si sottopone non sembra dare risultati. In questa situazione diventa normale per Anna trascorrere molto tempo alla finestra, osservando la strada e i vicini di casa. Quando la famiglia Russell si trasferisce nell’appartamento di fronte Anna incontra dapprima il figlio, il timido e introverso Ethan (Fred Hechinger), poi sua madre, l’allegra e amichevole Jane (Julianne Moore) e infine il padre, Alistair (Gary Oldman), dal carattere possessivo e violento. Alistair non gradisce che la dirimpettaia stringa legami con i suoi familiari e cerca di tenerla a distanza, ma quando Anna assiste dalla finestra all’omicidio di Jane non può evitare di rimanere coinvolta. Dalle indagini della polizia però la sua vicina Jane Russell risulta viva e vegeta… che sia stato tutto un incubo frutto della sua mente alterata?
A partire dal titolo stesso del film, La Donna alla Finestra esplicita i suoi richiami verso il capolavoro di Alfred Hitchcock La Finestra sul Cortile, in cui il giornalista James Stewart, immobilizzato da una gamba fratturata, si convinceva di aver assistito dalla sua finestra ad un omicidio. Giusto per ribadire il concetto, Anna guarda molto spesso vecchi film, tra cui proprio La Finestra sul Cortile ma anche Io Ti Salverò, altro film di Hitchcock affine per le tematiche affrontate (problemi psichici, rimozione di traumi, percezione alterata della realtà). Se nel film con James Stewart l’immobilità forzata era simbolo della riluttanza del protagonista a lasciarsi andare ai sentimenti per la bella Grace Kelly, in questo caso invece l’agorafobia (la paura degli spazi aperti e delle folle) scaturisce dalla difficoltà ad affrontare un trauma che ci viene rivelato (senza grosse sorprese, a dire il vero) solo in un secondo momento. Si tratta in entrambi i casi di una condizione che immobilizza i protagonisti, impedendo loro di vivere appieno la propria vita. Qui finiscono tutte le rassomiglianze con il film di Hitchcock: ci troviamo ad un livello decisamente più basso da ogni punto di vista. Il regista Joe Wright in passato si è dimostrato molto abile soprattutto nei film in costume, patinati eppure incisivi e divertenti come Orgoglio e Pregiudizio; purtroppo però non si mostra affatto a suo agio nel genere giallo/thriller, dove non riesce a costruire una suspense (non riceve nemmeno l’aiuto della colonna sonora di Danny Elfman, decisamente poco incisiva), a creare un mistero (la svolta finale è, come minimo, lapalissiana), a dare ambiguità ai personaggi. Questo non a causa degli attori, che invece si comportano tutti molto bene. Amy Adams accetta di sacrificare la sua bellezza per diventare una donna distrutta e disturbata, mettendo il suo talento al servizio di una protagonista con cui lo spettatore fatica, dall’inizio alla fine, a trovare empatia. Gary Oldman fatica a brillare a causa di una sceneggiatura balorda che, nel tentativo di dare ambiguità al suo personaggio lo rende poco efficace. Scintilla invece Julianne Moore in un ruolo vitale e cardinale, anche se di breve durata, mettendo in ombra la pur brava Jennifer Jason Leigh. Il migliore in campo, a sorpresa, è Wyatt Russell, l’affittuario ambiguo e misterioso, nonostante il personaggio venga usato come risolutore di tutte le storture della sceneggiatura. Riprovevoli, a mio parere, gli inserti come le macchie rosse sul tovagliolo, la mela rossa o i fiocchi di neve, nati sicuramente dal tentativo di richiamare le tecniche di Hitchcock (inserti e filtri cromatici per rappresentare una percezione distorta della realtà o un trauma affiorante) ma che qui non funzionano affatto. Purtroppo in questo film niente funziona: niente giallo, niente suspence, niente mistero, nessuno scavo psicologico interessante, nessun personaggio memorabile. Curiosità: anche se qui ha un ruolo molto piccolo come marito di Anna, Anthony Mackie ha da poco goduto di grande fama come protagonista della serie Disney PlusFalcon and the Winter Soldier, in cui interpreta appunto l’avenger Falcon che si incontra/scontra con il nuovo Captain America, interpretato guarda caso da Wyatt Russell. Il fatto che questa sia la curiosità più interessante di questo film la dice lunga sulla sua qualità, ahimè.
Ci troviamo nella Germania nazista, appena prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale: la bella Amanda (Cybill Shepherd), giovane e ricca americana molto chiacchierata per il suo gran numero di matrimoni dalla breve durata, si trova a viaggiare in treno accanto alla signora Froy (Angela Lansbury), una simpatica e premurosa tata inglese. Amanda, ancora provata dalla sbornia della sera precedente, si addormenta, e al suo risveglio la signora Froy è sparita. Non solo, ma nessuno dei passeggeri e dei membri dello staff ricorda di averla mai vista nè di aver mai parlato con lei. Fermamente convinta che la signora Froy sia nei guai, Amanda, aiutata dal giornalista Robert (Elliot Gould), si mette alla sua ricerca.
Dopo circa trent’anni, ho ritrovato la signora che avevo perso! Eh sì, perchè io da piccolina avevo iniziato a vedere questo film ma non avevo visto la fine (probabilmente per me era arrivata l’ora della nanna) e non ero mai più riuscita a vederlo, nonostante lo avessi cercato tanto. Nella mia ricerca naturalmente ho scoperto che da questa storia, tratta dal romanzo The Wheel Spins della scrittrice britannica Ethel Lina White, erano stati tratti anche altri film, tra cui La Signora Scompare di Alfred Hitchcock, ma per me non sarebbe potuta essere la stessa cosa. Infatti, quello che mi aveva colpito da piccola, era che a sparire nel nulla fosse stata proprio Angela Lansbury, che nel film interpreta Miss Froy ma che per me era Jessica Fletcher: insomma, se scompare la signora in giallo chi può risolvere il mistero? Finalmente, dopo tanti anni, grazie ad Amazon Prime ho trovato la risposta a questa domanda. Non svelerò nulla del finale, naturalmente, posso solo dire che il film resta avvincente e divertente fino alla fine grazie ad un’ottima sceneggiatura scritta da George Axelrod (lo stesso di classici come Colazione da Tiffany e Quando la Moglie è in Vacanza) e agli ottimi interpreti. Cybill Shepherd, che aveva già dato prova di essere un’ottima attrice brillante nella spassosa serie tv Moonlighting al fianco di Bruce Willis, regge l’intero film sulle spalle nude (nel senso che per tutto il tempo indossa un inadatto abito da sera) con grazia e fascino, affiancata da un simpaticissimo e cinico (ma solo all’apparenza) Elliot Gould. Anche i personaggi minori sono tutti perfetti, specie i due gentiluomini inglesi che più che della donna scomparsa si preoccupano della partita di cricket. L’equilibrio tra commedia, mistero e dramma (ricordiamo che ci troviamo nella Germania nazista) è perfetto e il film risulta omogeneo e completo nel suo mix tra risate e suspense. Film splendido, che non soffre per nulla del fatto di essere ambientato quasi per intero a bordo di un treno, anzi: divertente, appassionante, da vedere non solo (ma soprattutto) per i nostalgici e per gli amanti del cinema britannico. E per i fan di Angela Lansbury, ovviamente.
Interpreti: John Goodman, Cathy Moriarty, Kelly Martin
Dove trovarlo: Amazon Prime
Il regista Lawrence Woolsey (John Goodman) è il regista di film del brivido più famoso e ha scelto la piccola cittadina di Key West per collaudare la sua ultima trovata: la visione del suo ultimo spaventoso film Mant (il titolo sta per Man-Ant, Uomo-Formica) accompagnata da trucchi per terrorizzare ancora di più gli spettatori: sedili semoventi, effetto terremoto e una comparsa travestita da Uomo-Formica che si aggira tra le poltrone. Il pubblico accorre, ma la sera scelta per la prima, cioè quella di Halloween, niente andrà secondo i piani…
L’Halloween di quest’anno è senza dubbio particolare: non solo non è possibile festeggiare come al solito o suonare i campanelli dei vicini alla ricerca di dolcetti, ma sappiamo anche che le sale cinematografiche questa sera rimarranno chiuse, quelle sale che in questo periodo dell’anno ci hanno sempre offerto brividi e spaventi. In passato però il cinema ci ha anche mostrato che proprio la sala cinematografica può diventare luogo di autentico terrore in cui il male imperversa e lo spettatore ne viene travolto, come accade ad esempio a Fantozzi con il treno… oppure agli spettatori di Stab nel secondo film della serie Scream… Il regista Joe Dante, che già ci aveva mostrato i suoi Gremlins spadroneggiare senza pudore nella sala cinematografica, con lo stesso spirito ci offre Matinee, film più divertente che spaventoso ma in perfetto stile Halloween, per chi non vuole rinunciare a mostri e zucche ma di spaventi per questo 2020 ne ha già avuti fin troppi…
La figura chiave del film è il regista Lawrence Woolsey, interpretato da John Goodman, che è garanzia di bravura e simpatia. Il personaggio è ricalcato sul maestro del brivido Alfred Hitchcock, cui vengono dedicate diverse citazioni, ma alla fine risulta una personalità informe e caratterizzata in modo troppo generico. La sceneggiatura utilizza infatti il personaggio di Woolsey come forza aggregante per riunire tutti gli altri, cui fa anche da generosa spalla affinché ciascuno possa raccontare la propria storia e mostrare il suo carattere senza troppe complicazioni di sceneggiatura, finendo però per rendere troppo genericamente bonaccione il personaggio. Tutti gli altri personaggi sono decisamente minori, anche i protagonisti, i soliti ragazzini con i soliti problemi adolescenziali. Mentre la prima parte del film è molto divertente (nonostante la crisi missilistica di Cuba aleggi sullo sfondo) quella centrale, in attesa del grande spettacolo imbastito da Woolsey, perde molto in ritmo. Il film si riscatta però nel finale, avventuroso e divertente al punto giusto. Anche se nel film non ci sono veri mostri, il pover’uomo tramutato in formica gigante che si vede in Mant, il film nel film, è sufficiente a rendere Matinee perfetto per Halloween. Anche se il falso film che ruba la scena è The Shook Up Shopping Cart (che in italiano diventa Zio Carrello), in cui un uomo viene trasformato in un carrello della spesa ma ciononostante continua a proteggere l’amata nipotina dai malintenzionati.
Eccoci arrivati al secondo appuntamento con la spia più famosa del mondo, 007, agente segreto al servizio di sua maestà. Anche se James Bond, proprio come il suo creatore Ian Fleming, detesta il tè (Fleming lo considera la causa del declino dell’impero britannico) noi speriamo che gli piacciano almeno imuffin!
Dopo il successo straordinario del primo film, Licenza di Uccidere, si potrebbe pensare che girare il secondo sia stata una passeggiata… ma, come vedremo, non è così.
I produttori Albert “Cubby” Broccoli e Harry Saltzman avevano già deciso, durante le riprese di Dr. No, che Dalla Russia con Amore sarebbe stato il secondo film di Bond. Il romanzo, pubblicato nel 1957, aveva avuto un enorme successo, tanto che il presidente Kennedy, in un’intervista concessa nel 1961 alla rivista Life, lo aveva messo al secondo posto nella sua classifica dei libri preferiti (dopo Il Rosso e il Nero di Stendhal).
Poiché squadra che vince non si cambia, in Dalla Russia con Amore ritornano moltissimi degli artefici di Dr. No: confermati il regista Terence Young, lo sceneggiatore Richard Maibaum, la sceneggiatrice Johanna Harwood, l’addetto al montaggio Peter Hunt e il compositore John Barry, autore del celeberrimo motivo di 007, che questa volta realizza l’intera colonna sonora e riarrangia la canzone del film From Russia with Love, scritta da Lionel Bart e interpretata da Matt Monru. Grandi assenti il coordinatore degli stunt John Simmons, sostituito da Peter Perkins, e Ken Adam, chiamato da Stanley Kubrick, che aveva amato i set di Dr. No, per realizzare le scenografie del Dottor Stranamore. Dalla Russia con Amore, a differenza di Licenza di Uccidere, non aveva bisogno di scenografie grandiosamente esagerate come quelle di Ken Adam, ma piuttosto di ambientazioni realistiche che non distogliessero mai l’attenzione dai personaggi: ecco perché la scelta dell’art director di Dr. No Syd Cain come nuovo scenografo si rivelò vincente.
Per quanto riguarda invece il cast, Sean Connery viene riconfermato nel ruolo che lo ha reso ormai celebre con un nuovo contratto, che prevede che lui possa recitare anche in altri film al di fuori degli 007. Quando Cubby Broccoli gli chiede: “Sean, che altro film ti piacerebbe fare?” l’attore risponde: “Mi piacerebbe molto lavorare con Hitchcock”. Detto fatto, Broccoli alza il telefono e chiama Hitch, che si dichiara da subito entusiasta all’idea di lavorare con Connery. Nel 1964 uscirà Marnie, di Alfred Hitchcock, con Sean Connery e Tippi Hedren.
Al fianco di Connery tornano anche Lois Maxwell nel ruolo della segretaria Moneypenny e Bernard Lee in quello del capo dei servizi segreti M. A questi due si affianca una terza figura che diventerà imprescindibile per i film della saga: l’attore gallese Desmond Llewelyn (conosciuto dal regista Terence Young quando fece un provino per il suo film They Were Not Divided) interpreterà Q, l’ideatore di tutti i gadget di 007, in ben 17 film. In Dr. No il ruolo del fornitore di gadget maggiore Boothroyd (che poi diventerà solamente “Q”) era stato interpretato da Peter Burton, che per il secondo film non era disponibile. Per fortuna, si può dire, visto che Llwellyn è poi entrato nei cuori di tutti i fan di 007 come il personaggio più simpatico (oltre che longevo) della serie; quando Terence Young in sala montaggio vide la scena d’esordio di Q cadde dalla sedia per le risate: la valigetta nera con coltello, fumogeni e sovrane d’oro incorporati è soltanto il primo di una lunghissima serie di giocattoli che Q fornirà a Bond (e che mai lui gli restituirà intatti). Caso rimasto unico nella storia quello di Eunice Gayson, che ha interpretato la Bond girl Sylvia Trench sia in Dr. No che in From Russia with Love.
Il primo di molti gadget che Q fornirà a 007: la valigetta
Ora non restava che scegliere la protagonista femminile, colei che avrebbe avuto l’arduo compito di non sfigurare di fronte alla meravigliosa Honey Ryder interpretata da Ursula Andress in Licenza di Uccidere. Per il ruolo della spia russa Tatiana Romanova la produzione si mette alla ricerca di un’altra bellezza internazionale: gli agenti cercano di sfruttare il successo del primo Bond in ogni modo, attrici e modelle si fanno pubblicità anche per il solo fatto di essersi presentate ai casting. La competizione è dunque alle stelle, vengono scartate celebri beltà del calibro di Sylvia Koscina e Virna Lisi. A ridosso dell’inizio delle riprese, la scelta finale viene affidata a Sean Connery, che non ha dubbi: vuole al suo fianco la modella di Valentino e seconda classificata al concorso Miss Universo Daniela Bianchi. Daniela fino a quel momento ha interpretato solamente piccoli ruoli nel cinema. Al suo provino aveva colpito il regista per i suoi lunghissimi capelli biondi, ma essendo passati un paio di mesi tra le prime selezioni e la scelta finale li aveva tagliati, con grande dispiacere di Young. Ma questo non significa che il regista non avesse stima per l’attrice italiana: è curioso sapere che, nella scena in cui Bond scrive sulla fotografia di Tatiana “Dalla Russia con amore”, le mani che vediamo scrivere sono in realtà quella del regista. Daniela lavora molto sul suo accento, ma alla fine, come spesso succedeva, viene doppiata da Barbara Jefford. I produttori scandagliano i concorsi di bellezza anche per trovare le due gitane che lotteranno nel campo zingaro: vengono scelte Aliza Gur, anche lei come Daniela Bianchi finalista a Miss Universo, e Martine Beswick, che aveva venduto il premio per il primo posto nel concorso di Miss Giamaica (un’auto decappottabile) per potersi trasferire a Londra e studiare recitazione. Trovare l’attore per interpretare Kerim Bey, il capo dello spionaggio in Turchia alleato di Bond, fu molto più semplice: il regista John Ford, infatti, telefonò a Terence Young chiedendogli se avesse un ruolo per l’attore messicano Pedro Armendariz, che aveva diretto in Il Massacro di Fort Apache. Ora non restava che trovare i “cattivi”, cioè i membri dell’organizzazione SPECTRE, di cui era membro anche il Dr. No di Licenza di Uccidere. Lo sceneggiatore infatti aveva deciso, per evitare ogni tipo di problema di carattere politico, di discostarsi dal romanzo di Fleming, in cui il nemico era la Russia, e di fare invece della Spectre il vero avversario di Bond, mentre Tatiana, l’agente del KGB, sarebbe stata alleata di 007 e come lui manovrata a sua insaputa dall’organizzazione maligna. Per il ruolo del numero 2 Rosa Klebb viene fatta una scelta audace: l’attrice tedesca Lotte Lenya, in gioventù stella del varietà tedesco. Lotte pesa appena 45 chili e i costumisti iniziano a prepararle abiti imbottiti per farla sembrare più minacciosa, ma lei rifiuta di indossarli: “Vedrete che per come la interpreterò Rosa Klebb non sembrerà nè gracile nè debole”. Accetta solamente di indossare un paio di occhiali molto spessi che le offuscano quasi del tutto la visuale. Per il sicario della SpectreRed Grant viene scelto l’attore di teatro Robert Shaw, diventato famoso negli anni ‘70 per il ruolo di Lonnegan in La Stangata di George Roy Hill e per quello di Clint in Lo Squalo di Steven Spielberg.
Approfitto di questa fortuita connessione per aprire una parentesi sugli squali, creature di cui il cinema nel corso dei decenni ci ha instillato il terrore, iniziando proprio dal film di Spielberg del 1975 e proseguendo via via fino ai giorni nostri con capolavori del genere “animali assassini” come la serie Sharknado o Mega Shark vs. Giant Octopus. Anche James Bond si è dovuto scontrare più volte con gli squali (che non sempre, come vedremo più avanti nel corso di questa rubrica, erano dotati di pinna caudale). E c’è un motivo ben preciso per questo: gli squali infatti erano una delle ossessioni del produttore Harry Saltzman, che amava sottoporre le sue idee strampalate (che lui riteneva geniali) ai registi della saga: di queste alcune risultavano poi efficaci, mentre altre erano così folli che dovevano essere scartate, ma non per questo lui si arrendeva. Fino al 1975 (anno in cui, a causa di problemi economici dovuti ad investimenti sbagliati, dovette vendere la sua quota dei diritti cinematografici dei romanzi di Fleming alla United Artists) infatti Saltzman continuò a proporre con veemenza la sua idea di creare una scena in cui 007 si venisse a trovare dentro un’enorme lavatrice… Fino ad oggi questa idea non è stata ritenuta valida, ma se per caso nel prossimo film ci capiterà di vedere Daniel Craig che viene centrifugato sapremo chi ringraziare…
In Dalla Russia con Amore non viene mai mostrato il volto di Blofeld, il numero 1 della Spectre. Vengono mostrate solamente le sue mani, sempre intente ad accarezzare il gatto bianco, che sono quelle dell’attore Anthony Dawson, il Professor Dent di Dr. No. La voce, tuttavia, non è quella di Dawson, come vedremo più avanti.
Dr. Claw, il villain dell’Ispettore Gadget, ispirato a Blofeld
Terence Young chiama il primo ciak di Dalla Russia con Amore il primo di aprile del 1963. Si gira ancora negli studi di Pinewood, poco fuori Londra. C’è il rischio di deludere le aspettative dei moltissimi fan che 007 ha già incantato con il primo film, ma questa volta tutti sanno esattamente cosa stanno facendo e il budget è di due milioni di dollari. Cosa potrebbe mai andare storto?
Il 5 aprile viene girata negli studi Pinewood la scena del campionato mondiale di scacchi nel superbo set allestito da Syd Cain per il costo di 150.000 dollari. Tutto è stato ragionato nei minimi dettagli, il motivo del pavimento è a scacchiera, le luci di scena sono coperte da un mascherino dipinto per poter inquadrare anche il soffitto del salone, le mosse dei due finalisti (tra cui il numero 2 della Spectre Kronsteen, interpretato da Vladek Sheybal) riprendono quelle di una partita realmente disputata tre anni prima da Spassky e Bronstein. Come spiegherà lo stesso Kronsteen, l’intero film sarà una partita a scacchi tra l’intelligenza strategica del nemico e l’astuzia di James Bond.
Il set costruito da Syd Cain a Pinewood
Tocca poi alla scena della seduzione di Tatiana, che in un’inquadratura molto audace per l’epoca vediamo attraversare la stanza nuda appena mascherata da un sottile tendaggio (si tratta di una controfigura) per infilarsi nel letto di Bond. Quella scena dovette essere girata diverse volte perchè Sean Connery, resosi conto dell’imbarazzo di Daniela, cercava di metterla a suo agio facendola ridere con il solletico, sotto lo sguardo complice di Terence Young…
Daniela Bianchi pronta per la scena della seduzione
Ma questo è niente in confronto alle difficoltà incontrate con la scena ambientata sullo yacht di Blofeld, in cui viene spiegato allo spettatore il piano della Spectre: la sequenza è stata girata a Pinewood il 10 di aprile (con qualche difficoltà causata dal fatto che i pesci lottatori siamesi dell’acquario di Blofeld non volevano saperne di lottare) e in seguito rimaneggiata più volte per far combaciare i dialoghi con gli adattamenti che venivano fatti al copione man mano che la trama prendeva forma con i diversi aggiustamenti di sceneggiatura. Poiché però, avvicinandosi al termine delle riprese, tempo e denaro scarseggiavano, Young e il montatore Hunt dovettero trovare un modo per modificare la scena senza dover ricostruire il set. Le cose furono facili per il personaggio di Blofeld, di cui come abbiamo già detto non si vedeva il volto, che venne ridoppiato dall’attore Eric Pohlmann, che aveva già recitato in alcuni film prodotti da Broccoli; Lotte Lenya girò nuovamente la scena recitando le nuove battute e le nuove inquadrature furono sovrapposte a quelle della scena precedente tramite l’utilizzo di lucidi, in modo da mantenere inalterato il fondale. Peter Hunt inoltre si inventa di utilizzare una scena già girata in cui Rosa Klebb si avvicinava all’acquario per osservare i pesci, semplicemente riavvolgendo la pellicola per mostrarla anche mentre se ne allontana. Trucchi del mestiere!
Young incoraggia sempre i suoi collaboratori se propongono soluzioni ardite: come ad esempio quando il produttore Harry Saltzman propone di far uccidere James Bond ancora prima dei titoli di testa! In Dalla Russia con Amore infatti troviamo per la prima volta una scena del film prima dei titoli di testa, caratteristica che diventerà poi distintiva di tutti i film della saga. La scena dell’uccisione di Bond da parte di Grant viene girata nei giardini degli studi Pinewood nella notte tra il 16 e il 17 aprile. La scelta è dovuta al fatto che tutti gli altri set non sono ancora pronti, ma il regista è molto contento di questa location esterna con statue e siepi che ricorda il film L’Anno Scorso a Marienbad di Alain Resnais. Nella scena vediamo l’agente della Spectre Grant che segue poi assale e uccide 007 strangolandolo con un filo nascosto nell’orologio; dopo l’uccisione sopraggiunge un altro agente Spectre, Morzeny (interpretato dall’attore Walter Gotell, che tornerà più avanti nella saga in un ruolo diverso, quello del generale russo Gogol, capo del KGB), che toglie al cadavere una maschera rivelando che non si tratta del vero James Bond. Purtroppo però l’attore che era stato scelto, nel momento in cui viene smascherato, si rivela essere troppo somigliante a Sean Connery, il che potrebbe confondere non poco il pubblico… ma questo problema emergerà solamente più tardi, in fase di montaggio, quando tutta la troupe e il cast saranno già partiti per Istanbul.
Il campo di addestramento Spectre si ispira a quello del film “Spartacus”
Dopo il successo planetario di Licenza di Uccidere, 007 è un personaggio amato e conosciuto ormai in ogni dove. L’accoglienza della popolazione di Istanbul all’arrivo di Sean Connery è festosa ed entusiasta…fin troppo! Ovunque posizioni la macchina da presa Young si ritrova circondato da migliaia di fan e curiosi. Nemmeno i poliziotti turchi a cavallo riescono a contenere la folla e le riprese del film sono seriamente compromesse. Ecco perché il regista, insieme al coordinatore degli stunt, crea un diversivo: Peter Perkins e altri stuntmen si appendono fuori dal cornicione dell’ottavo piano di un edificio e fingono di girare una scena per distrarre la folla, mentre Young, indisturbato, può continuare con le vere riprese del film. Tocca dunque alla scena dell’assalto all’ambasciata, in cui Young utilizza abbondantemente i fumogeni per gli effetti speciali delle esplosioni: peccato però che non avesse i dovuti permessi! Polizia e ambulanze accorrono sul set a sirene spiegate e il regista deve chiarire il malinteso, che però non sarà l’ultimo. Qualche giorno dopo infatti, quando il supervisore degli effetti speciali John Stears, in base ad accordi presi in precedenza dal produttore Saltzman, si reca in una base militare turca alla ricerca di pezzi di elicotteri in disuso da utilizzare per le riprese, si ritrova improvvisamente una quarantina di fucili puntati addosso e viene preso in custodia dai militari. Fortunatamente l’equivoco viene chiarito e il tutto si conclude con un bello spavento, destinato a non essere l’ultimo. Almeno le riprese dell’arrivo di 007 all’aeroporto di Istanbul filano lisce. Young crea una scena speculare a quella del film precedente, in cui Bond arrivava all’aeroporto in Giamaica. Le due sequenze presentano le stesse scene nel medesimo ordine: atterraggio dell’aereo, torre di controllo che ne annuncia l’arrivo, controcampo di 007 al terminal dell’aeroporto. Come in Licenza di Uccidere, Bond viene osservato da un tipo sospetto, accolto da un autista e seguito da un altro tizio sospetto. Questa volta però i ruoli dei personaggi sono invertiti: l’autista, che in Dr. No era un cattivo, qui è un alleato (un figlio di Kerim Bey), mentre il losco figuro che osserva 007 non è più la spia alleata Felix Leiter ma un agente bulgaro al soldo dei sovietici; l’uomo che lo segue in auto, che nel primo film era il buon Quarrel, invece è Red Grant, l’assassino della Spectre. Con grande abilità Young ha stabilito un parallelismo ma anche un’evoluzione rispetto al primo film della saga, facendo sentire lo spettatore allo stesso tempo rassicurato e sulle spine. Questa ambivalenza viene sottolineata perfettamente dal tema musicale di 007, creato da John Barry, che nasce da uno spunto militare ma si sviluppa in maniera ironica, in armonia con lo spirito del personaggio: lo spettatore sa già che Bond alla fine trionferà, ma durante il film segue comunque con ansia le sue imprese. Il compositore si era recato con la troupe a Istanbul alla ricerca di ispirazioni sonore tipiche del luogo, ma alla fine opterà per una colonna sonora di impostazione completamente europea, resa più esotica soltanto dall’aggiunta di alcuni strumenti tipici della musica turca (cimbali da dita, cetre).
La danzatrice del ventre Lisa Guiraut, sul cui corpo vengono anche proiettati i titoli di testa
Nel romanzo di Fleming la permanenza di James Bond a Istanbul era molto breve (giusto il tempo di sedurre Tatiana, che gli consegna poi il Lektor senza alcuna difficoltà), ma lo sceneggiatore Maibaum aggiunge alcune scene ambientate nella capitale turca per sottolineare il tentennamento emotivo di Tatiana e aumentare la suspense; a rendere Bond il più affascinante possibile affinché possa vincere la riluttanza di Tatiana è ancora una volta il sarto di Savile Row Anthony Sinclair, unitamente alle camicie su misura di Turnbull&Asser. Young vuole sfruttare appieno la location turca: gira dunque all’interno della moschea di Santa Sofia, sul Bosforo, e perfino nelle condutture sotterranee. La scena dell’orda di ratti incontrata da Bond e Tatiana però viene girata più tardi con non poche difficoltà: in Inghilterra infatti non è permesso utilizzare ratti selvatici per le riprese, così Syd Cain tenta di girare la scena con dei ratti bianchi il cui pelo viene scurito con il cacao in polvere. Purtroppo però i ratti sono storditi dalle luci e si fermano in continuazione per leccarsi via il cacao. La scena viene quindi girata in Spagna, in un magazzino in cui vengono liberate centinaia di autentici ratti di fogna, catturati nei giorni precedenti; Cain deve approntare una gabbia di vetro in cui far rifugiare gli operatori.
Ratti buongustai in “Ratatouille”
L’ultima sequenza da girare prima del rientro in Inghilterra è quella dell’inseguimento in motoscafo, ambientata a Venezia, ma una serie di inconvenienti (barche troppo lente, maltempo, attacchi di mal di mare dei membri del cast e della troupe) impediscono di realizzare la scena. Ma c’è un altro motivo, purtroppo, per anticipare il rientro in Gran Bretagna.
L’attore Pedro Armendariz, infatti, da alcuni giorni appare visibilmente sofferente. Terence Young insiste per farlo visitare da suo fratello, che è anche il medico di corte di Buckingham Palace, e la diagnosi è catastrofica: Pedro ha un cancro non operabile che lo porterà alla morte nel giro di poche settimane. L’attore, ansioso di lasciare del denaro alla famiglia, insiste per terminare le riprese del film, che sarà inevitabilmente il suo ultimo. Young decide di correre il rischio, ma è necessario rientrare immediatamente in Inghilterra per ultimare tutte le scene che coinvolgono l’attore messicano.
Pedro Armendariz con Sean Connery
La scena più impegnativa per Pedro è quella del campo zingaro, che viene ricostruito negli studi Pinewood su modello di un luogo visitato a Istanbul, nel quartiere Topkapi. Durante le riprese Armendariz è visibilmente sofferente, zoppica e in alcuni momenti deve essere sostenuto da dietro per reggersi in piedi. Peter Perkins aveva iniziato tre settimane prima a far esercitare le attrici Aliza Gur e Martine Beswick per la scena del combattimento, coreografata da lui stesso e divenuta una delle più celebri della saga di Bond. Nel bel mezzo dello scontro tra le due gitane fanno irruzione nel campo i bulgari, e questa scena di battaglia ci dà l’occasione per osservare la strategia di Bond, che si muove ai margini dello scontro osservando e valutando, soppesando forze e debolezze, per intervenire in sicurezza e non correre rischi in scontri non necessari. Come si era visto anche in Dr. No, 007 non perde tempo con i pesci piccoli (come la fotografa in Giamaica) ma punta direttamente ai pezzi grossi del crimine. Subito dopo la conclusione della scena il tempo cambia e inizia una pioggia che durerà per ben cinque giorni: se Young non avesse portato a termine la scena in quel frangente non ne avrebbe più avuto l’occasione. Nelle ore successive infatti le condizioni di Armendariz peggiorano e l’attore viene ricoverato in ospedale, dove decide di togliersi la vita con una pistola portata con sé di nascosto.
Dopo la tragica morte di Armendariz spetta al regista Terence Young spingere i suoi collaboratori (cui si rivolge spesso chiamandoli “figli miei”) a farsi forza e portare a compimento il film. Lo scenografo Syd Cain, dopo aver studiato a fondo l’originale, ha realizzato un set che riproduce gli interni sfarzosi dell’Orient Express: il treno di Istanbul era troppo malridotto per poter girare le scene al suo interno.
Una curiosità: Sean Connery, nel 1974 farà parte del cast stellare del film Assassinio sull’Orient Express, di Sidney Lumet, basato sul romanzo di Agatha Christie.
Sull’Orient Express, sentiamo Grant parlare per la prima volta in tutto il film. Quando si finge una spia inglese cerca di imitarne la parlata, poi però rivela la sua vera identità a 007, che già aveva avuto dei sospetti (“Vino rosso con il pesce…dovevo capirlo da questo” è una delle battute più riuscite). Segue la famosa scena della lotta, coreografata dallo stesso Young, che era stato pugile all’università, e da Perkins e girata dagli attori stessi, ripresi molto da vicino negli spazi stretti del vagone, sostituiti in pochissime inquadrature da controfigure. In tutto servono due giorni di riprese (ma in fase di montaggio Young girerà ulteriori inquadrature aggiuntive) per un combattimento di sei minuti, così violento che all’epoca rischiò di essere censurato. La scena funziona così bene grazie alla suspense costruita durante tutto il film, a partire dall’uccisione del falso Bond e attraverso tutti i pedinamenti e gli omicidi commessi da Grant nell’ombra. Nel libro di Fleming l’agente della Spectre sparava a 007 con una pistola nascosta dentro una copia di Guerra e Pace, colpendo però il portasigarette di metallo che Bond aveva in tasca. Nel film, per prima cosa Grant disarma 007 e gli porta via il portasigarette: sarà la sua avidità, unita all’equipaggiamento impeccabile fornito da Q, a segnare la sua fine. Durante la lotta Grant cerca di uccidere il vero Bond come aveva ucciso il falso Bond nell’incipit, strangolandolo con un filo nascosto nell’orologio.
Sean Connery e Robert Shaw saranno di nuovo rivali nel film del 1976 “Robin e Marian”, nei panni di Robin Hood e dello Sceriffo di Nottingham
A questo proposito, il regista rigira anche la scena della morte del falso Bond, che viene sostituito da un attore con i baffi per non poter essere confuso con Sean Connery.
Nel romanzo, dopo la morte di Grant, Bond e Tatiana saltano dal treno senza che vi siano ulteriori incidenti; Maibaum aggiunge invece due scene ulteriori per mantenere alta la tensione drammatica fino alla fine. La prima scena è quella dell’inseguimento di 007 da parte dell‘elicottero, ispirata a quella di Cary Grant nel film Intrigo Internazionale di Hitchcock. Sean Connery gira quasi tutta la sequenza personalmente; l’elicottero che si schianta, invece, è un modellino radiocomandato creato da John Stears. La seconda scena aggiunta è quella, già citata, dell’inseguimento in motoscafo, che Young non era riuscito a girare ad Istanbul: l’ultima scena che resta da girare. Sembrerebbe quasi fatta…
Cary Grant in “Intrigo Internazionale” e Sean Connery in “Dalla Russia con Amore”
La location selezionata è in Scozia. Il 6 luglio, quando il regista sale su un elicottero per cercare il punto migliore per le riprese, questo a causa di un malfunzionamento precipita in mare. La cinepresa che si trovava a bordo blocca lo sportello. Alcuni membri della troupe si tuffano ed estraggono Terence Young e gli altri passeggeri riportandoli a terra. Young ha dei tagli sulle gambe ma non se ne preoccupa e ritorna immediatamente dietro alla macchina da presa, senza mai prendersi una pausa fino a sera. Nonostante la stoicità di Young tuttavia è necessario attendere diversi giorni per far arrivare un nuovo elicottero da Londra e poter terminare le riprese… e ormai il tempo stringe: la data della première infatti è già stata fissata.
La scena è rischiosa (come si è visto fin troppo bene) e costosa, è possibile girarla solamente una volta. Ma per un fraintendimento le cariche esplosive piazzate sott’acqua vengono fatte saltare durante una prova. Non resta dunque che far arrivare nuovo materiale esplosivo da Londra e rigirare la scena il giorno successivo, in cui finalmente Young riesce a portare a casa la scena: la pazienza di aspettare, come imposto dal produttore Broccoli, che il vento soffiasse nella giusta direzione dà i suoi frutti, e la scena risulta perfetta. Gli effetti post-esplosione però vengono girati a Pinewood, in una vasca. La scena è rischiosa, gli interpreti sono accecati dal fumo, ma Walter Gotell rifiuta la controfigura e gira la scena personalmente. Nonostante l’ambiente controllato le esplosioni sfuggono di mano e tre stuntmen restano ustionati. Come se non bastasse, l’autista di Daniela Bianchi si addormenta al volante e l’auto esce di strada; Sean Connery, che viaggia nell’auto subito dietro, soccorre personalmente la collega. Per fortuna nulla di grave, ma l’attrice ha sbattuto il viso e ha la faccia tutta gonfia: non potrà girare alcuna scena prima di due settimane.
La scena finale, che nel romanzo si svolge al Ritz di Parigi, è invece ambientata in un hotel di Venezia e girata a Pinewood. La celebre scena dell’attacco della Klebb con la scarpa dalla punta avvelenata è diversa rispetto a quella del libro, in cui Bond veniva attaccato anche con una pistola e dei ferri da calza avvelenati. Alla fine riusciva comunque a prevalere, ma mentre veniva portata via dalle forze dell’ordine la Klebb riusciva a colpire Bond con il puntale avvelenato; il libro si conclude con 007 che cade a terra come morto. Fleming, tuttavia, non aveva mai avuto davvero intenzione di uccidere la sua spia (stava già scrivendo il libro successivo), desiderava solo aumentare la suspense.
Durante la fase di montaggio Young, instancabile, continua a girare scene e inquadrature aggiuntive; corre perfino a Venezia per avere alcune riprese fatte sul posto. La sceneggiatura è stata riscritta e modificata fino all’ultimo, la storia è risultata molto più complessa di quella del romanzo, e sono necessari diversi aggiustamenti per far combaciare tutte le scene e i dialoghi.
Il 10 ottobre 1963, al London Pavilion, si svolge come previsto la première di Dalla Russia con Amore: sarà l’ultima cui presenzierà l’autore dei romanzi Ian Fleming, che si spegnerà il 12 agosto 1964, all’età di 56 anni, a causa di un infarto. Fleming era per molti aspetti simile al suo personaggio più celebre: anche lui amava le belle donne e i bei vestiti, era stato nell’esercito ed era entrato poi nei servizi segreti della marina britannica. Nelle interviste rivela che in Bond ha messo molte delle sue manie (come l’odio per il tè e per il nodo Windsor delle cravatte) ma che non si ritiene uguale a lui. In ogni caso non lo considera un eroe, ma capisce che il suo pubblico invece ammira Bond e il suo stile di vita romantico e avventuroso, anche se crede che sia necessario per il protagonista soffrire sempre un po’ prima del trionfo finale. Nei suoi libri ha inserito moltissimi dettagli realistici presi dalla propria esperienza e dai suoi molti viaggi, ma non quelli che riguardano il mestiere di agente segreto: in caso contrario, spiega, si sarebbe trovato in grossi guai. Prende piuttosto ispirazione da vicende riguardanti lo spionaggio in altri paesi. Fleming adotta una rigida routine di scrittura per i suoi romanzi: scrive per due mesi all’anno (le vacanze pattuite nel contratto con la rivista Sunday Times, per cui lavorava come come corrispondente estero), quando si recava nella sua tenuta in Giamaica, Goldeneye. Nello specifico scrive tre ore ogni mattina e un’ora nel tardo pomeriggio, per un totale di duemila parole al giorno. La prima stesura viene fatta di getto per non perdere il ritmo, perché sa quanto l’azione sia importante in questo genere di romanzi (era appassionato di thriller fin da bambino), lascia tutte le correzioni per la fase successiva. Non ha mai coltivato ambizioni letterarie diverse, essere il creatore di 007 lo soddisfaceva pienamente. Non si preoccupa per nulla del fatto che i suoi libri possano corrompere in qualche modo i giovani, pieni di sesso e di violenza come sono, in quanto essi “sono destinati ad un pubblico di focosi adulti eterosessuali”: la storia lo ha smentito, visto che i film di 007 sono amati ancora oggi in tutto il mondo e da ogni categoria di persone, nonostante molti, proprio come lui stesso comprendeva, non ne apprezzino alcune caratteristiche. Si tratta in ogni caso di un successo strabiliante per un personaggio nato, come Fleming spiega, “per togliere la mia mente dall’agonia del mio imminente matrimonio”.
Ian Fleming, autore dei romanzi di 007
Beh, anche se nato come distrazione per uno scapolo incallito indesideroso di farsi definitivamente accalappiare, a noi James Bond piace così com’è. E infatti 007 tornerà sulle pagine di questo blog in quello che non esito a definire uno dei miei film preferiti della saga: Goldfinger!
Ho sempre amato moltissimo la produzione del maestro del brivido (ma non solo di quello) Alfred Hitchcock, e questa non è una sorpresa nel quadro generale della mia innata anglofilia. Ricordo che, quando ero davvero molto piccola, vidi per caso il finale di Intrigo Internazionale: rimasi molto impressionata dall’inseguimento sul monte Rushmore, mi spaventai quando il cattivo tentò di far cadere nel vuoto Cary Grant pestandogli una mano, e rimasi esterrefatta dal finale in cui si passava improvvisamente dalla drammatica prospettiva di una caduta da un precipizio all’estasi divertita di una luna di miele sul vagone di un treno. Più tardi naturalmente, da brava cinefila, ho guardato tutti i film del maestro che ho potuto trovare, mi sono letta l’intervista di Truffaut e mi sono divertita a cercare la comparsata di Hitch in ogni film, con grande soddisfazione per aver trovato in un polveroso vhs anche l’introvabile Prigionieri dell’Oceano, interamente ambientato su una scialuppa alla deriva in mezzo al mare, in cui il regista compare tra la fotografie dei ricercati in un brandello di pagina di giornale che galleggia tra i relitti del naufragio. Una volta acquisita un’infarinatura di tecniche cinematografiche, mi sono goduta anche gli aspetti più tecnici della fantasia innovativa del regista britannico, uno su tutti il suo grande desiderio di girare un intero film in piano sequenza (cioè senza stacchi di montaggio, cosa che la lunghezza delle pellicole all’epoca non permetteva e che è divenuta possibile solo con l’avvento del digitale), quasi realizzato con lo splendido Nodo alla Gola, in cui gli stacchi di montaggio sono camuffati con buffe inquadrature che entrano nella schiena dei personaggi. O piccole chicche come la lampadina messa all’interno del bicchiere di latte del presunto uxoricida Cary Grant in Il Sospetto, o il pavimento trasparente nel suo primo lungometraggio, The Lodger. Ho scoperto anche la vena divertente di Hitchcock con il poco conosciuto La Congiura degli Innocenti. Il titolo originale è The Trouble with Harry: il guaio con Harry è che è morto, e poiché tutti i protagonisti sono convinti di averlo ucciso, il povero Harry viene sepolto e dissepolto diverse volte prima della fine, tutto secondo il più autentico british black humor che io tanto amo. Li ho visti tutti, li ho amati tutti, ma ce n’è sempre stato uno che per me, ancor prima di vederlo, era davvero speciale: Psycho. Sapevo che aveva un finale a sorpresa, ma incredibilmente sono riuscita ad arrivare alla fine delle scuole medie senza che nessuno me lo spoilerasse (non che molti dei miei compagni di allora fossero fan di Hitchcock…). Desideravo tantissimo vedere quel film così capitale, ero estremamente curiosa, ma allo stesso tempo avevo anche paura che mi spaventasse sul serio… e questo lo rendeva ancora più desiderabile. Quando superai con il massimo dei voti gli esami di terza media i miei genitori (che sono sempre stati più che generosi) mi chiesero se desiderassi qualcosa in regalo, e io senza pensarci su espressi il mio desiderio: volevo vedere Psycho di Hitchcock, mangiando una pizza al gorgonzola, da sola, in salotto, al buio e senza interruzioni. Detto fatto: il film fu noleggiato, la pizza ordinata, le luci spente. Mi godetti la visione al cento per cento, il film mi spaventò quanto era giusto e lo amai tantissimo. E da allora mi godetti finalmente anche tutti i diversi omaggi e parodie, primo fra tutti quello di una puntata della Signora in Giallo in cui Jessica Fletcher si trova proprio sul set originale del film di Hitchcock (e naturalmente ci scappa il morto). Al secondo posto viene Bugs Bunny, che in Looney Tunes – Back in Action reinterpreta a modo suo la celeberrima scena della doccia. Ho invece decisamente odiato l’operazione furbetto-scolastica di Gus Van Sant, che ha rigirato il film in maniera identica fotogramma per fotogramma, aggiungendoci giusto una scena di masturbazione di cui nessuno sentiva il bisogno: pollice verso.
Qualche anno più tardi, quando ormai nemmeno mio padre poteva più fingere che il dvd non stesse soppiantando la videocassetta, lo accompagnai a scegliere il nostro primo lettore dvd; mentre lui si faceva spiegare tutti i dettagli tecnici dal commesso, io mi persi a scorrere i dvd in vendita nel negozio, e quando lui ebbe finalmente trovato un modello che lo convinceva lo raggiunsi alla cassa con in mano il dvd di Psycho. Lui rise, ma io dissi seria: “Scusa, come facciamo a sapere se il lettore funziona se non abbiamo nemmeno un dvd?”. E così Psycho di Hitchcock fu il primo dvd in assoluto che comprai (che mio padre mi comprò, per l’esattezza, il primo di una lunga lunga serie).
Un’altra grandissima soddisfazione per Cine-muffin! Kris Kelvin, autore del blog di cinemaSolaris mi ha premiata con il Liebster Award! Grazie Kris, continuerò a seguirti con grande piacere come sempre!
Poiché Cine-muffin aveva già ricevuto due Liebster Award, uno daSam Simon e uno daCassidy, attuerò una procedura abbreviata rispondendo per prima cosa alle domande di Kris:
1) Una domanda che a nessuno viene mai in mente… come stai?
Innanzi tutto grazie per averlo chiesto… Io sto bene, è un momento di grande incertezza per tutti, e io ho due bambini che non so se a settembre andranno a scuola o saranno (ancora) a casa con me… ma finché stanno bene loro sto bene anche io. E iniziare a tenere un blog mi ha fatto decisamente un gran bene!
2) Quanto la pandemia e la quarantena forzata hanno cambiato la tua vita?
Non molto in realtà: con le varie malattie stagionali dei bambini (e di conseguenza mie) ero già reclusa in casa dai primi di novembre, quindi nessun grosso trauma..
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3) Pensi che le sale cinematografiche si riprenderanno dopo il lockdown?
Molti hanno detto che questo sarà il colpo di grazia per il cinema in sala, ma io spero davvero che non sia così. Anche se negli ultimi anni sono andata molto poco al cinema è mia ferma intenzione ritornarci. Portandomi, come al solito, le mie M&M’s (quelle gialle), se no il film me lo godo solo a metà…
4) I protocolli del governo per far riaprire i cinema sono molto rigidi (poltrone sfalsate, prenotazione online, controllo della temperatura, ingresso una persona per volta, sanificazione della sala dopo ogni spettacolo…) te la sentiresti di tornare a vedere un film in sala a queste condizioni?
Anche se ora volessi tornare in sala mi sarebbe molto difficile, per via degli orari dei bambini, quindi aspetterò in ogni caso che la situazione torni alla normalità (e mi auguro che sia presto!) prima di andarci. Anche perchè non vedo l’ora di portarci i bimbi, che non ci sono ancora mai stati!
5) Qual è un film, non necessariamente un capolavoro, che non puoi fare a meno di rivedere ogni volta che passa in tv?
Dirty Dancing.
6) Qual è la recensione più bella che hai scritto?
Ho iniziato a tenere il blog da poco, quindi ho ancora molto da imparare, ma fino ad ora la mia preferita, che è piaciuta abbastanza anche agli altri blogger, è quella di Tyler Rake con Chris Hemsworth.
7) Quali film avresti voluto dirigere se fossi stata una regista?
Di sicuro quelli di stampo teatrale, ambientati in un unico interno, come Arsenico e Vecchi Merletti di Capra, Carnage di Polanski o Nodo alla Gola di Hitchcock.
8) A quale film cambieresti il finale?
Il Diavolo veste Prada: nonostante la protagonista sia una presuntuosa svampita che non sa fare il suo lavoro, alla fine le va tutto alla grande. Ottiene il lavoro dei suoi sogni, riconquista il suo ragazzo (rifiutando perfino lo stupendo Simon Baker) e nel farlo perde anche una taglia! Tutto per aver stampato due copie di Harry Potter… Io l’avrei fatta finire in modo ben diverso (e sì, odio Anne Hathaway).
9) C’è un film che… ce l’hai lì da vedere da tanto tempo, ma non trovi la voglia o il coraggio?
Tanto tempo fa con un concorso di Ciak ho vinto il blu ray di I Ragazzi stanno Bene con Annette Bening e Julianne Moore: però, nonostante il gran cast e il tema importante, a me sa di essere noioso e sdolcinato…
10) Qual è il viaggio, la città o la location dove hai lasciato il cuore?
Il Museo del Cinema di Potsdamer Platz a Berlino: una meraviglia che mi sogno spesso di notte.
11) Scuola a parte, ti è mai capitato di recitare su un palcoscenico o davanti a una cinepresa, ma sempre con un pubblico?
Ho partecipato a giochi di ruolo dal vivo per molti anni: indossare costumi, parrucche, recitare e cantare davanti agli altri mi diverte moltissimo.
Spero le risposte siano di tuo gradimento Kris! Ora dovrei procedere nominando altri blog, ma poiché l’ho già fatto mi limito a rimandarvi qui per trovare i blog da me nominati!
Ma sono meglio i film o le serie tv? In molti hanno provato a dare una risposta a questa domanda, portando diversi argomenti a favore dell’una o dell’altra squadra. Le serie tv hanno raggiunto (almeno alcune) livelli qualitativi che nulla hanno da invidiare ai lungometraggi; l’esperienza in sala (almeno prima del Coronavirus) permette un’esperienza emozionale e sensoriale che un diverso tipo di schermo non può offrire; essendo gli episodi brevi, le serie tv sono più facilmente fruibili; il cinema non è solo intrattenimento ma è anche cultura e storia, argomento studiato anche nelle università più prestigiose. Non è certo mia intenzione dare una risposta univoca e definitiva ad un quesito che probabilmente non ne ha una, ma voglio portare l’attenzione su una serie tv che ha tra i suoi punti di forza proprio il continuo intrecciarsi con il mondo del cinema: Psych.
La serie, iniziata nel 2006 e conclusasi nel 2014 con l’ottava stagione, ha avuto un grandissimo successo di pubblico e di critica, tanto da guadagnarsi anche due film, Psych: the Movie del 2017 e Lassie go Home, di cui si attende l’uscita, più uno spin-off animato, The Big Adventures of Little Shawn and Gus, tutti ideati da Steve Franks.
Psych è una serie crime, in ogni puntata c’è un misterioso assassino da scovare, ma spesso le indagini, che restano comunque interessanti da seguire, vengono messe in secondo piano dalle gag e dai dialoghi ricchissimi di citazioni pop e geek, che però non scadono mai nella farsa.
Shawn (James Roday) ha grandissime doti da detective, ma si rifiuta ostinatamente di seguire le orme del padre ex poliziotto (Corbin Bernsen) ed entrare in polizia. Invece apre con l’amico del cuore Gus (Dulè Hill) una fittizia agenzia investigativa e risolve i casi fingendo di possedere poteri psichici. Mantiene il suo segreto anche con gli amici del corpo di polizia, con cui spesso collabora: la detective di cui si innamora, Juliet (Maggie Lawson), il detective tutto d’un pezzo Lassiter (Timothy Omundson), il capo del dipartimento di polizia di Santa Barbara (Kirsten Nelson) e l’eccentrico anatomopatologo Woody (Kurt Fuller). La congiunzione con la settima arte si struttura su diversi livelli, in primo luogo i dialoghi e le battute, che come accennavo pullulano di citazioni e riferimenti cinematografici. Poi ci sono le trame dei singoli episodi, che a volte ricalcano diversi aspetti di un film celebre: troviamo ad esempio una puntata a tema Shining, una sul Mistero della Strega di Blair, una interamente dedicata ad Alfred Hitchcock e, la mia preferita, che omaggia Signori il Delitto è Servito addirittura con due membri del cast del film, Christopher Lloyd (che è anche produttore della serie) e Leslie Ann Warren. Poi ci sono gli attori e le attrici famosi che compaiono come personaggi in una o più puntate: Cary Elwes, Tim Curry, Christine Baranski, Val Kilmer, William Shatner…. Ultima cosa, in omaggio ad un mio guilty pleasure personale, spesso compaiono ospiti le star della WWE (John Cena, Brie e Nikki Bella, The Miz, The Big Show, che ora ha un suo “Big Show” divertentissimo su Netflix). E non ho ancora detto che alcune puntate comprendono delle canzoni originali, in perfetto stile musical (la più bella è quella su Jack lo Squartatore nell’ultima stagione), cantate dal cast che è davvero fantastico e non sfigura mai nemmeno davanti alle più alte celebrità. Psych è una serie godibile per chiunque, ma particolarmente consigliata ai cinefili che amano cogliere riferimenti e citazioni. Potete trovare tutte le otto stagioni su Amazon Prime. Buona visione!
Il piccolo Antoine, che in famiglia non trova alcun affetto (la madre pensa solo a se stessa e il patrigno alle corse automobilistiche), inizia con i cattivi comportamenti a scuola per arrivare poi al furto e alla fuga. Finisce dunque in riformatorio, ma riesce a scappare.
Primo lungometraggio di Truffaut, allora giovane ma già affermato critico cinematografico per i Cahiers du Cinéma (l’unico cui Alfred Hitchcock accettò di concedere una lunga e meravigliosa intervista), I 400 Colpi spicca tra i titoli cardine della Nouvelle Vague francese insieme ad altre pellicole capitali come Fino all’Ultimo Respiro di Godard, che uscirà l’anno successivo. Truffaut attinge al suo vissuto personale per raccontare la storia di Antoine, interpretato da Jean-Pierre Léaud anche in altri quattro titoli sempre diretti da Truffaut, giovane disadattato perché cresciuto senza bussole affettive né morali cui far riferimento e incapace di sfruttare le proprie potenzialità se non decidendo ingenuamente di dedicarsi al furto di una macchina da scrivere che poi non riesce a rivendere (viene poi scoperto non nell’atto del furto ma in quello della restituzione). Tutto sullo schermo appare genuino: situazioni, caratteri, dialoghi, luoghi. La Parigi di Truffaut non ha nulla a che fare con quella delle cartoline ma è autentica, vissuta, divertente ma anche torbida, e tutto questo si evince già dalle inquadrature della Torre Eiffel sui titoli di testa, che sono fatte da vicino e dal basso, proprio come se a guardarla fosse un bambino. Truffaut non giudica né giustifica ma semplicemente racconta, senza nessuno stratagemma filmico o romanzesco, adattando il mezzo cinematografico alle sue esigenze espressive piuttosto che alle consuetudini ma senza il compiacimento di infrangere le sue regole che macchia altre pellicole come Fino all’Ultimo Respiro. Non a caso I 400 Colpi è un classico in tutti i corsi di cinematografia.
Dove trovarla: Netflix (se proprio avete tempo da perdere e un certo gusto camp)
Per salvare la popolazione del pianeta Terra da una serie di epidemie, la nave spaziale Nightflyer intraprende una pericolosa missione nello spazio profondo alla ricerca di una misteriosa specie aliena che sembra essere in grado di controllare il Teke, la più potente energia dell’universo. Ma la nave e il suo equipaggio nascondono molti segreti…
Avete presente quei giochi che si trovano sulle riviste di enigmistica in cui bisogna aguzzare la vista e trovare una serie di oggetti in un’immagine affollata, confusa e priva di senso? Ecco, Nightflyers è proprio così. Tratto da una novella di George R.R. Martin, autore della celeberrima serie Il Trono di Spade, in originale Game of Thrones, Nightflyers si limita ad inanellare una catena di citazioni da altri film e telefilm appartenenti al genere fantascienza (ma non solo) senza creare proprio niente di originale. Personaggi, situazioni, dialoghi, tutto sa di già visto e sfocia troppo spesso nel cattivo gusto. Si salvano giusto gli effetti speciali, ma tutto il resto è un vero disastro. E non si è mai visto nella storia delle navi spaziali un equipaggio più disobbediente, falso e disordinato: ognuno pensa per sé, persegue i suoi fini personali e nasconde cose ai suoi compagni. Giusto per fare un esempio che renda l’idea, ad un certo punto l’equipaggio è così annoiato che sfrutta gli immensi poteri del telepate che hanno a bordo per creare… una grande campagna allucinatoria di Dungeons & Dragons. Ho detto tutto.
Tuttavia, poiché non mi va giù l’idea di aver buttato via il tempo, vi propongo un gioco:
A Game of Quotes
Vi sfido a trovare in questa orripilante serie tv senza capo né coda tutti i riferimenti ad altri film e telefilm, di fantascienza e non. Di seguito ve ne elenco alcuni, giusto per farvi capire in che pantano vi infilate se provate davvero a vedere la serie per intero.
Alien (1979) di Ridley Scott, un grande classico del genere fantascienza ricco di tensione con una straordinaria Sigurney Weaver. Anche qui a bordo dell’astronave, all’insaputa di tutti, c’è un robot (ma non solo…) che si spaccia per essere umano.
Il Pianeta Proibito (1956) di Fred M. Wilcox. Classicissimo oggi purtroppo dimenticato, che non passa mai in televisione ma che invece è ancora avvincente e affascinante, fantascienza pura al 100%, con un giovanissimo Leslie Nielsen per la prima (e forse unica) volta in un ruolo serio. Anche la Nightflyer espone nella sua sala mensa una macchina in grado di ricreare, su richiesta, qualsiasi tipo di cibo o bevanda (l’unico macchinario di tutta la serie che, come l’adorabile robot Robbie, segue sempre le tre leggi della robotica).
Salvation è una dimenticabile serie tv del 2017, ma questo non ha scoraggiato gli sceneggiatori di Nightflyers, che le hanno rubato l’idea di una meteora in rotta di collisione con la Terra che si rivela poi un essere alieno senziente.
Psycho (1960) di Alfred Hitchcock. Il maestro del brivido sarebbe rabbrividito vedendo come in Nightflyers la madre maniaca del controllo abbia deciso di arredare le sue stanze con dei riconoscibilissimi uccelli impagliati.
Matrix (1999) dei fratelli (ora sorelle) Wachowski viene ampiamente saccheggiato. La metafora utilizzata dall’agente Smith (Hugo Weaving) che assimila la razza umana ad un virus che infesta il pianeta Terra viene ripresa alla lettera.
2001 – Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick…………………………………………………….