Interpreti: Jason Flemyng, Jackie Chan, Arnold Schwarzenegger, Rutger Hauer, Charles Dance
Dove trovarlo: Prime Video
L’antica Cina prosperava grazie a un drago buono, che permetteva la crescita di una pianta di tè dalle foglie ricche di magiche proprietà curative. Ma tutta la ricchezza derivante dalla vendita del tè miracoloso tentò alcuni dei Maghi incaricati di proteggere il drago, che divennero malvagi e lo imprigionarono. La bellissima Principessa venne allontanata e imprigionata, e sembrava che nessuno potesse salvare il drago, il tè e la Cina dall’oscuro potere dei Maghi Neri; fino a che non arrivò dall’Europa un intraprendente cartografo…
In primo piano sulla locandina di questo film dal titolo banalissimo ci sono Jackie Chan E Arnold Schwarzenegger… Potrei anche chiudere qui la recensione no? Questi due nomi mi hanno attirata come una falena verso la lanterna, e l’arzigogolato prologo animato che spiega la storia del dragone, dei maghi e del tè non mi ha potuta scoraggiare. Jackie e Arnold non sono i protagonisti assoluti, ma le scene in cui combattono o si affrontano verbalmente sono da incorniciare per tutti i fan dell’uno e dell’altro. Il film, a raccontarne la trama, sembra un pasticcio senza appello (parliamo di dragoni, dello zar russo rinchiuso nella torre di Londra, di creaturine volanti e pirati cosacchi), e la sua forza di certo non è nella trama complicata e sovrabbondante di personaggi e situazioni, ma il risultato è un prodotto divertente, con belle scene d’azione e di combattimento e avventure simpatiche. L’uso massiccio della computer grafica ci ricorda in ogni momento che ci troviamo in una favola, dove è insensato pretendere realismo (e la recitazione in generale non aiuta a prendere le cose sul serio) e consequenzialità: la cosa giusta da fare è lasciarsi travolgere dalle scene assurde che si susseguono rapidamente senza dare il tempo di rifletterci troppo sopra. Le risate sono assicurate, il tono è scanzonato ma mai demenziale, i camei di star di grande livello come Rutger Hauer e Charles Dance arricchiscono ulteriormente l’accozzaglia di inseguimenti, scazzottate e confronti dal respiro epico ma dall’esito comico.
Consigliato per chi ama i film d’azione classici e quelli con combattimenti acrobatici, per chi ama il genere wuxia e in generale il cinema d’avventura orientale intriso di magia, il tutto ingentilito da un umorismo fanciullesco (mai volgare) e una violenza blandissima. Sconsigliato a tutti gli altri.
2018, Afghanistan: il Sergente John Kinley (Jake Gyllenhaal) è a capo di una piccola squadra addetta alla ricerca di armi ed esplosivi collegati ai Talebani; sono operazioni delicate, rischiose e non debitamente supportate. Quando l’interpreto del team rimane ucciso viene scelto, per sostituirlo, un uomo del posto, Ahmed (Dar Salim), che si rivela da subito ottimo conoscitore del territorio e delle sue dinamiche ma anche incline alla disobbedienza, motivo per cui entra spesso in conflitto con il Sergente Kinley. Durante un raid in una fabbrica di esplosivi dei Talebani, vengono uccisi tutti gli altri membri della squadra, Kinley e Ahmed devono necessariamente collaborare per salvarsi la vita; quando il Sergente rimane gravemente ferito, Ahmed si incarica di portarlo in salvo, anche se questo comporta una lunga traversata del deserto con il ferito da trasportare e i Talebani alle calcagna.
Molti grandi registi, nella storia del cinema, sebbene resi celebri da un genere cinematografico particolare, hanno spesso dimostrato di poter realizzare dei capolavori anche al di fuori di essi: penso al maestro del brivido Alfred Hitchcock che gira la commedia nera esilarante La Congiura degli Innocenti (The Trouble with Harry è il ben più azzeccato titolo originale), o al genio della commedia Billy Wilder che crea un capolavoro drammatico come L’Asso nella Manica (Ace in the Hole).
Poiché io amo moltissimo il regista Guy Ritchie per le sue famose commedie d’azione, adrenaliniche e spassose (Lock and Stock e The Man from U.N.C.L.E. i miei preferiti, ma non disdegno affatto la sua versione di Sherlock Holmes), mi sono approcciata con grandi aspettative al suo ultimo lavoro The Covenant, sapendo che si trattava di un film di guerra, molto lontano dalla sua comfort zone. E non sono assolutamente rimasta delusa, anzi, mi sono trovata a vedere un film stupendo, coinvolgente, ben fatto sotto ogni punto di vista, in cui sono presenti moltissimi stilemi tecnici tipici di Ritchie ma declinati con perizia nella sobrietà che il genere richiede.
Fin dalla scena di apertura, accompagnata da una delle mie canzoni preferite, A Horse with No Name, emergono tutte le grandi abilità tecniche del regista, che ci offre per tutto il tempo inquadratura bellissime (pregevolissima la fotografia di Ed Wild, collaboratore abituale del regista) e ci immerge fin da subito in un ambiente ben diverso dal deserto afgano cui il cinema di guerra ci ha abituati (richiamato anche dalla canzone degli America): un paesaggio variegato, pieno di colori e di sfumature incantevoli, che però nascondono terribili insidie e pericoli, come appare chiaro fin da subito.
Al momento della presentazione dei personaggi principali Ritchie utilizza, come suo solito, le didascalie con i loro nomi e soprannomi, come verrà fatto altre volte nel corso del film per spiegare allo spettatore cosa indichino alcuni acronimi o termini del gergo militare: questo espediente permette di alleggerire i dialoghi (Guy Ritchie è anche sceneggiatore del film) e di velocizzare la partenza della storia.
Con i consolidati virtuosismi dell’inquadratura, Ritchie riesce a mostrarci allo stesso tempo le due parti del controcampo con il volto del Sergente Kinley riflesso nello specchietto retrovisore: qui inizia la grande prova d’attore di Jake Gyllenhaal, che in questo film offre una recitazione dimessa, sincera e convincente in un ruolo fondamentale e molto complesso.
Era davvero molto tempo che non seguivo un film con tanto coinvolgimento e tanto interesse, e questo grazie all’enorme bravura degli interpreti (Jake Gyllenhaal su tutti ma anche l’ottimo Dar Salim, nel ruolo altrettanto complesso dell’interprete afgano, di cui i soldati USA diffidano e che i talebani hanno marchiato come traditore della patria). Il film procede equilibrato, senza strappi né esagerazioni patetiche: il coinvolgimento è dato dalla costruzione di personaggi profondi, completi e realistici, le cui azioni, emozioni e reazioni ci catturano fin da subito e per la cui sorte ci si appassiona e a tratti ci si commuove, senza che vengano mai usati gli stratagemmi tipici dei film mainstream americani (musica struggente, lacrime, dialoghi stucchevoli…).
Il grande merito di Guy Ritchie secondo me consiste nell’aver raccontato una storia (ben più interessante e sorprendente di quanto qualunque sinossi possa far intendere) che è allo stesso tempo universale e geograficamente e storicamente collocata: questa vicenda ai limiti dell’incredibile poteva benissimo accadere nella Chicago dei gangster, su un pianeta controllato dagli alieni o nel Far West: al centro, come di dice il titolo, c’è “il patto”, “l’accordo”, quel legame non ratificato e impossibile da spiegare che spinge un essere umano e sacrificarsi, contro ogni logica, per salvarne un altro. E se il “patto” più evidente è quello che lega i due protagonisti, nel film ci sono molti altri personaggi che mostrano, a volte in modo inaspettato, di possedere in loro una parte di quello stesso spirito disinteressato di sacrificio: molti soldati, alcuni incontri casuali, ma soprattutto le mogli dei protagonisti, meno presenti in scena ma non per questo meno determinanti e determinate.
La scelta di questo titolo quindi mi porta a pensare che The Covenant, oltre che l’affascinante e crudo racconto di un’amara realtà sconosciuta ai più, sia anche un sincero elogio della natura umana nella sua declinazione migliore.
Consiglio questo film a tutti coloro che amano Guy Ritchie, ma anche a tutti coloro che non lo amano, perché in The Covenant si trova tutto il meglio del regista spoglio di quel compiacimento un po’ ripetitivo che caratterizza i suoi ultimi film (come ad esempio The Gentlemen).
interpreti: Karl Urban, James Marsden, Eric Stonestreet, Wentworth Miller, Matthias Schoenaerts, Rhona Mitra
Dove trovarlo: Amazon Prime Video
Cinque amici, tutti sposati e apparentemente arrivati nella vita, decidono di acquistare insieme e in segreto un elegante appartamento (il “Loft” del titolo) da tenere sempre a disposizione per le loro scappatelle. Un giorno però trovano una ragazza morta nell’appartamento: poiché nessuno, oltre loro cinque, possiede le chiavi, i buoni amici iniziano a sospettare l’uno dell’altro…
Remake del film del 2008 Loft, sempre diretto da Erik Van Looy e sceneggiato da Bart de Pauw, The Loft si aggiunge alla breve lista di titoli della storia del cinema che lo stesso regista ha girato due volte; in questo caso ritornano anche lo sceneggiatore e uno dei cinque interpreti principali, Matthias Schoenaerts, nato in Belgio come il regista. Non avendo visto il film del 2008 per me è impossibile dire se il regista sia stato saggio o meno a rigirare lo stesso film, ma quello che posso dire è che questo suo secondo tentativo si fa davvero apprezzare. Il punto di forza sono i cinque attori principali, tutti volti noti della tv e del cinema, che pur non essendo forse interpreti da Oscar riescono a caratterizzare bene i propri personaggi e soprattutto a tenere desto l’interesse dello spettatore nelle loro sorti. Quello che invece scricchiola è la sceneggiatura: ripensando alla vicenda (che non è davvero il caso di spoilerare visto il suo carattere “Whodunnit”) dopo la visione, infatti, emergono molteplici incongruenze; inoltre i personaggi non sono così ben delineati come avrebbero potuto essere (soprattutto considerando che sono solamente cinque e che gli attori sono bravi). Nonostante questo, mentre si guarda il film, si viene coinvolti profondamente nel mistero, soprattutto mano a mano che emergono i segreti di ciascuno dei sedicenti “carissimi amici”. Il personaggio più repulsivo è sicuramente quello interpretato da Schoenaerts, cocainomane violento con un passato di violenza domestica alle spalle. James Marsden (Sonic– Il Film) è perfetto nei panni del “buono” della compagnia, quello che non vuole saperne del loft e di tradire la moglie (inizialmente). Eric Stonestreet, noto per il ruolo del gay appassionato di musical Cameron nella serie Modern Family, qui sorprende invece nel ruolo di sciupafemmine. Wentworth Miller, il protagonista dell’ottima (almeno per la prima stagione) serie Prison Break, regala al suo personaggio una grande ambiguità che ben serve lo spirito “giallo” del film. Ma il vero mattatore della compagnia è Karl Urban, salito alla ribalta nel 2002 con il secondo capitolo della trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson nel ruolo di Eomer e da allora presente in un gran numero di film e serie tv (personalmente l’ho molto apprezzato nelle Cronache di Riddick come antagonista di Vin Diesel, nei nuovi film di Star Trek nel ruolo del dottor McCoy e nel più recente Thor: Ragnarok nel ruolo del pavido Skurge, oltre che nella sottovalutata serie Almost Human); dopo molti ruoli in costume (in particolare penso al reboot Dredd in cui recita per tutto il film con indosso il casco) per la prima volta ho potuto constatare quanto fascinoso e magnetico sia questo attore calato nella giusta atmosfera e nel giusto personaggio. Al di là dei cinque protagonisti, il cast femminile (che comprende tutte le moglie e le amanti, tutte meglio tratteggiate dei protagonisti maschili) è ricco e talentuoso, capitanato da una splendida Rachel Taylor (la Trish Walker della serie Marvel Jessica Jones) cui la sceneggiatura,come per i colleghi dell’altro sesso, non rende giustizia. Ricapitolando: cinque amici, un cadavere, mille segreti e, naturalmente, un finale a sorpresa. Non un capolavoro e di certo non perfetto ma davvero coinvolgente e apprezzabile nel suo genere.
Interpreti: Chao Deng, Li Sun, Ryan Zeng, Wang Qianyuan
Dove trovarlo: Prime Video
Il comandante dell’esercito Ziyu, dopo essere stato sconfitto in duello dal rivale Yang Kang, si nasconde in una grotta e addestra segretamente un suo perfetto sosia affinché un giorno possa sconfiggere Yang Kang e riabilitare il suo nome. Non ha però considerato i sentimenti che la moglie segretamente prova per la sua “ombra” e i mille intrighi che la corte nasconde.
Il regista cinese Yimou Zhang nel 2002 aveva realizzato il suggestivo film Hero rielaborando la trama del capolavoro del grande maestro del cinema giapponese Akira Kurosawa, Rashomon, in cui una stessa storia viene raccontata e rappresentata da punti di vista diversi a seconda del personaggio narrante, dando vita ad un trionfo estetico di colori e movimenti davvero notevole, supportato da una storia coinvolgente con un twist interessante nel finale e attori molto fascinosi.
Hero, 2002
Anche con Shadow Yimou Zhang procede da spunti e suggestioni prese da Kurosawa: la pioggia battente e senza fine (Rashomon), la figura femminile che spicca nel finale per colori a contrasto, movenze ed espressioni molto cariche (Trono di Sangue), il sosia “ombra” che sostituisce il combattente nelle situazioni più pericolose (Kagemusha). Questa volta però, a contrasto con la saturazione policroma di Hero, il regista mette in scena un mondo in bianco e nero rappresentando e al contempo negando la classica contrapposizone tra Yin e Yang, bianco e nero, bene e male: in modo fin troppo didascalico i personaggi si allenano al combattimento in un’arena a forma di Yin-Yang, e i personaggi stessi proclamano come non esistano giusto o sbagliato ma solamente ciò che accade e ciò che non accade. In questo film non ci sono buoni o cattivi, eroi o malvagi, ma ogni personaggio è “grigio”, amorale, guidato da motivazioni imperscrutabili e in fin dei conti irrilevanti. Lo stesso finale aperto ci lascia nell’ignoranza di cosa sia accaduto, quale decisione sia stata presa: eppure la scelta finale non è rilevante, in quanto nulla di ciò che accade può dirsi giusto o sbagliato. Se l’idea di fondo è abbastanza interessante, la resa è decisamente poco incisiva: gli attori appaiono a loro volta “grigi”, senza saper infondere vita nei loro personaggi, che restano sagome di cartone utili al regista per esporre la sua tesi ma prive di anima; la continua ricerca estetica in ogni singola inquadratura sovrasta ogni dialogo, ogni azione e ogni dinamica tra i personaggi; il ridicolo involontario arriva con forza nella scena in cui si invitano i combattenti a “maneggiare gli ombrelli con movenze femminili” per vincere la battaglia.
In definitiva questa nuova estetica e filosofia cinematografica del regista cinese non mi ha convinta, soprattutto per via della decisione di anteporre il messaggio alla rappresentazione, a discapito ovviamente della forza del film, divenuto manifesto di una visione interessante ma trasmessa in modo troppo diretto: più manifesto estetico/filosofico che film.
Non ho bisogno degli Analytics per sapere con certezza che Angela Lansbury è il personaggio più citato in assoluto su Cinemuffin. Non solo articoli e recensioni a lei dedicati, ma molto spesso ha fatto capolino a sorpresa in contenuti che sembravano non avere assolutamente nulla a che fare con lei. Ma non poteva essere diversamente, visto che Angela è stata una figura sempre presente nella mia vita, sin da quando ero piccolissima e guardavo la Signora in Giallo sicura che, ad ogni episodio, una o due persone venissero realmente uccise. Poco più tardi mi venne spiegato delle finte morti e delle pistole a salve: in poche parole, della magia dello schermo. L’immancabile risata finale di Jessica Fletcher e la voce della sua storica doppiatrice Alina Moradei risuonano ancora oggi in casa mia ogni giorno, all’ora di pranzo, e ancora oggi gli episodi di Murder, She Wrote, seppure visti mille volte, mi offrono sorprese inaspettate. Non molto tempo dopo la mia scoperta del sangue finto arrivò quello che divenne, ed è ancora oggi, un grande classico di casa Verdurin: Pomi d’Ottone e Manici di Scopa. Solo molto più tardi, con l’arrivo dei dvd, potei ascoltarlo in lingua originale, con tutte le canzoni interpretate da Angela, comprese quelle poi tagliate dalla versione che conoscevo del film (compresa l’imbarazzante, nella traduzione italiana, “L’età del Non-mi-cucchi”). Allo stesso modo riuscii finalmente ad ascoltare la voce originale di Angela nel capolavoro Disney La Bella e la Bestia, grazie all’arrivo dei dvd. In quel periodo avevo imparato a scaricare le canzoni da Internet e creare i miei cd personalizzati e venivo presa in giro perchè, in ogni singola compilation che realizzavo, Tale as Old as Time cantata dalla teiera Mrs. Brick (Mrs. Potts in originale) era presente: una sorta di marchio di fabbrica. Venne poi la grande sorpresa di vedere Angela da giovane in molti film: Gran Premio, in cui interpretava la sorella maggiore di Elizabeth Taylor, ma soprattutto I Tre Moschettieri, in cui nei panni della regina di Francia, Angela spediva Gene Kelly e compagni in missione per recuperare i gioielli che avrebbero potuto provocare una guerra tra Francia e Inghilterra a causa della sua liason con il duca di Buckingham. E che dire poi dei suoi molti ruoli in film gialli, come quelli tratti dalle opere della mia amatissima Agatha Christie, o della signora scomparsa e miracolosamente da me ritrovata decenni dopo grazie al catalogo di Prime Video? Per non citare la versione teatrale del musical di Stephen Sondheim Sweeney Todd, in cui Angela interpretava Mrs. Lovett (ruolo ripreso da Helena Bonham Carter nella versione cinematografica di Tim Burton): il costume della cuoca, celebre per le sue speciali “torte di carne”, con tanto di scarafaggi e mattarello insanguinato, è in cantina pronto ad essere indossato per Halloween.
Angela Lansbury ha sempre fatto parte della mia vita e dei miei sogni, e continuerà a farne parte per sempre (i miei due romanzi gialli nel cassetto lo provano: ho sempre desiderato essere come Jessica Fletcher. Vedovanza a parte).
Interpreti: Jason Statham, Holt McCallany, Josh Hartnett, Scott Eastwood, Andy Garcia, Eddie Marsan, Jeffrey Donovan
Dove trovarlo: Amazon Prime
Una compagnia privata di trasporti valori assume un uomo schivo e silenzioso, che si fa chiamare semplicemente H (Jason Statham), come autista dei suoi furgoni: il manager non nasconde al nuovo assunto che il lavoro è pericoloso e che due suoi colleghi hanno recentemente persona la vita in una rapina. Ma sembra non ci sia nulla in grado di scuotere l’imperturbabilità di H, e quando dei rapinatori si presentano durante il suo turno lui li mette tutti fuori gioco senza alcuna difficoltà, diventando l’eroe del giorno. Ma ben presto capiamo che H non è un tipo qualsiasi, che non ha scelto quel lavoro per caso e che ha in mente un piano di cui non è facile comprendere lo scopo…
La scena che precede i titoli di testa è quella che meglio ci fa gustare l’innegabile talento del regista Guy Ritchie, da sempre a suo agio tra rapine e sparatorie: si tratta infatti di una rapina che viene ripresa interamente da una camera fissa nell’angolo posteriore di un furgone portavalori, ma nonostante questa angolazione apparentemente infelice lo spettatore riesce a percepire ogni dettaglio e si sente da subito immerso nella vicenda.
Proseguendo con la visione però ci si rende conto di non essere di fronte al miglior Guy Ritchie, in quanto il suo grande umorismo, che personalmente tanto amo, è del tutto assente dal film. Non ha senso però incolpare di questo il protagonista Jason Statham, che in altri film d’azione (la serie The Expandables) anche dello stesso regista (come la sua pellicola d’esordio Lock&Stock) ha dimostrato di saper padroneggiare anche i registri comici, pur senza cambiare mai una volta espressione. Il tono serioso del film è invece una scelta del regista: Wrath of Man resta comunque un bel film d’azione con molti personaggi ben costruiti e molti bravi attori in gioco (Andy Garcia, Scott Eastwood, Josh Hartnett, Jeffrey Donovan, Eddie Marsan e molti altri). La sua pecca più grande è quella di illudere lo spettatore che esistano dinamiche sotterranee che muovono i personaggi (soprattutto il poliziotto di Andy Garcia, il cui sostegno per H non viene mai motivato) ma che in realtà non ci sono. Al termine quindi resta dell’amaro in bocca, come se fossero stati fatti dei tagli o dei cambiamenti arbitrari di sceneggiatura in corso d’opera. In definitiva, La Furia dell’Uomo è un buon film d’azione per passare una serata senza pensieri, ma per chi come me preferisce farsi anche due risate tra uno sparo e un cazzotto consiglio altri film di Guy Ritchie, in particolare Lock&Stock-Pazzi Scatenati e il mio prediletto Operazione U.N.C.L.E.
Ho iniziato a vedere la serie Nine Perfect Strangers (“Nove Perfetti Sconosciuti”) su Amazon Prime per diversi motivi. Innanzitutto per rivedere, dopo un po’ di tempo che non mi capitava, Nicole Kidman, che interpretando la prostituta Satine in Moulin Rouge si è guadagnata per sempre il mio affetto e la stima per le sue doti di cantante e attrice; poi nella speranza di vedere finalmente la tanto osannata comica (ma quando?) Melissa McCarthy mostrare anche le sue doti recitative oltre alla sua, pur notevole, media di parolacce al minuto; infine perché l’idea di nove perfetti sconosciuti segregati per un’intera settimana in un resort pieno di segreti mi sembrava molto intrigante, così come, a suo tempo, trovavo davvero interessante l’idea alla base del Grande Fratello, prima di vedere con i miei occhi che non era certo il consesso di personalità e scambi di opinioni che avevo immaginato. Ma soprattutto, sotto sotto speravo con Nine PerfectStrangers di vedere una versione di Dieci Piccoli Indiani aggiornata ai tempi di Instagram. La serie però mi ha deluso. Mi ha deluso per ben 9 (perfetti) motivi:
(attenzione: SPOILER!)
Il cast è davvero notevole, tutti attori e attrici con alle spalle lunghe esperienze sia di cinema che di tv, ma viene del tutto sprecato in una serie priva di scopo. Nicole Kidman, grazie alla chirurgia estetica, è sempre bellissima ma anche sempre meno espressiva, a tratti sembra che non riesca neppure a muovere la bocca, mentre a tratti esplode in un’espressività sopra e righe che mal si addice al personaggio di Masha, colei che tira le fila con calcolata freddezza. Melissa McCarthy inizialmente sbraita e impreca come suo solito, salvo poi adottare uno sguardo addolorato perenne che non aiuta a capire l’evoluzione del suo personaggio, la scrittrice rifiutata sia dagli editori che dagli uomini Frances. Luke Evans fa quello che può con un personaggio discontinuo come Lars, il giornalista omosessuale desideroso e allo stesso tempo timoroso della paternità. Tutti gli altri interpreti fanno quello che possono con la sceneggiatura che hanno. Regina Hall per la prima volta, dopo tanti Scary Movie e dopo essere stata la donna di Shaft, ricopre il ruolo scomodo e difficile di Carmel, accantonata da marito e figli in favore di una donna più giovane e attraente e che nasconde più di un segreto.
I personaggi, tutti, sono privi di forza e di credibilità, monolitici nell’avere un unico, singolo problema da affrontare e risolvere, accettano passivamente eventi impensabili, non allacciano rapporti tra di loro se non quelli strettamente funzionali al raggiungimento del finale, e soprattutto non evolvono, come dimostra chiaramente il fatto che l’epifania che cambierà le loro vite si manifesta esclusivamente nell’esperienza della camera chiusa in cui temono di stare per morire, inficiando di fatto tutte le esperienze precedenti.
Lo stile della serie è indeciso e alterna soluzioni formali diverse alla ricerca di un risultato che, qualsiasi dovesse essere, non viene raggiunto. Le inquadrature da angolazioni strane, le canzoni famose, i sogni, i flashback, i cambiamenti di luce e di sonorità, le allucinazioni, tutti stratagemmi che non portano a nulla e che mostrano l’indecisione della serie sul tono da adottare e sulla sua stessa essenza: thriller? Onirico? Soprannaturale? Psicologico? Non si sa.
La serie è anche piena di false promesse, di elementi che non vengono sviluppati e che sembrano indizi per risolvere un mistero che, in realtà, non c’è mai stato. Chi sono le persone che lavorano a Tranquillum e perché lo fanno? Perché e come Yao ha salvato la vita di Masha? Perché Masha chiede a Lars di filmare tutto? Sarà una coincidenza il fatto che alcuni ospiti siano assassini? Con che criterio Masha sceglie i suoi ospiti? Come mai Tony conosceva le critiche al libro inedito di Frances? Dove sono finite le automobili? Tutte domande che restano senza risposta e che non portano a nulla.
Il triangolo no! Ci viene mostrato che Masha intrattiene una relazione sia con Yao che con Delilah, i quali hanno anche una relazione tra di loro. Ma cosa lega queste persone? Come e da quanto si conoscono? Perché Yao ha salvato la vita a Masha e perchè sembra esserne così succube? Perché invece Delilah riesce ad andarsene? Ma soprattutto, a cosa serve tutto questo ai fini della storia?
Come funziona l’aldilà? La serie ci dice che è possibile comunicare con i defunti, in certe condizioni, ma quali siano queste condizioni è molto difficile da capire. L’unica cosa chiara è che bisogna essere sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Il che ci porta al prossimo punto:
Trovo inaccettabile che una serie tv possa suggerire che l’uso massiccio di stupefacenti e sostanze psicotropiche possa essere una soluzione per i problemi esistenziali dell’essere umano. Fino all’ultimo ho sperato che le droghe non fossero altro che un espediente narrativo, per quanto ingenuo, per arrivare a qualcosa d’altro; ma non è così. Alla fine quello che ci viene detto è: se non riesci ad accettare la perdita di una persona cara e andare avanti con la tua vita, allora fai uso di droghe per fare pace con te stesso e tornare sereno. Cosa? Altro che arduo percorso di introspezione e meditazione immersi nella natura, la felicità si raggiunge con gli smoothies all’LSD! Non aggiungo altro.
Ho odiato anche la scelta di spingere così tanto sul pedale del patetico, mostrando e rimostrando all’infinito la scena straziante della morte di Tatiana, la figlia di sette anni di Grace; lo stesso vale per Zach, il fratello gemello della giovane Zoe, morto suicida, che appare ripetutamente alla sorella e ai genitori. Queste scene sono difficili da reggere, ma la commozione che procurano è soltanto viscerale; riflettendoci sopra, come già si diceva, il messaggio che passa è che se ti droghi i tuoi cari estinti ti perdoneranno e faranno pace con te. No, non ci siamo.
Infine, naturalmente, il finale. Non c’è nessuna delle sorprese che credevo di aver intuito, tutto procede esattamente come previsto, senza colpi di scena, verso uno dei lieti fini più smaccatamente vergognosi di sempre. Chi si è drogato per una settimana nei boschi della California e chi ha creduto di morire soffocato in un bunker ora ha meritato, a quanto pare, la felicità. Anche se per raggiungere i suoi scopi, nel caso di Masha, ha mentito, manipolato, intimidito e drogato le persone a loro insaputa. E’ vero che, una volta appreso che gli smoothies erano pieni di allucinogeni, nessuno ha battuto ciglio, ma ci tengo a precisare che sono cose che non si fanno, visto che i creatori della serie non hanno pensato di farlo: se ai vostri amici muore il gatto non mettete loro la droga nel frullato, ok?
Questo è quanto, sconsiglio vivamente la visione di Nine Perfect Strangers a tutti e vi consiglio di lasciar perdere gli smoothies a di bere piuttosto una buona tazza di tè. Possibilmente con un muffin.
Interpreti: Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Sarah Gadon, Isabella Rossellini
Dove trovarlo: Amazon Prime Video
Adam Bell (Jake Gyllenhaal) è un professore universitario dalla vita monotona e noiosa. Nemmeno la stanca relazione con la bella Helen (Mélanie Laurent) sembra rendere interessante la vita, fino a che Adam, seguendo il consiglio di un collega insegnante, noleggia un film in cui recita un attore in tutto e per tutto identico a lui. Incuriosito Adam inizia a indagare su di lui, scoprendo che si chiama Daniel St. Claire (in arte Anthony Claire). Adam, ormai ossessionato, inizia a spiare Daniel, fino a che non decide di chiamarlo e chiedergli un incontro. Daniel inizialmente rifiuta ma poi accetta di incontrare Adam; Daniel rimane a sua volta sbalordito dalla somiglianza fisica (anche le voci sono identiche) e propone subito uno scambio di identità: per una giornata Adam e Daniel si scambieranno gli abiti, l’appartamento e anche le donne…
Lo ammetto: ho scelto questo film, nel vasto catalogo Prime Video, attirata dall’idea di un doppio Jake Gyllenhaal. E la mia ingordigia è stata punita…
Enemy, tratto dal romanzo L’Uomo Duplicato di Josè Saramago, è un film con un’ottima idea di partenza (anche se non proprio originalissima, basti pensare a Il Principe e il Povero e a tutti gli altri libri e film basati sullo scambio di identità tra persone fisicamente identiche, da La Maschera di Ferro a Un Cowboy col Velo da Sposa) che non sa sfruttare, sporcando la connotazione thriller, ben riuscita, con una deriva onirico-psicologica che fa sorridere.
Il regista Denis Villeneuve, salito ora alla ribalta con il kolossal Dune, ambienta il suo film in una Toronto verdognola e giallastra per dare l’idea della vita insipida e scialba condotta dal professore Adam, che trova invece desiderabile quella del suo doppio, l’attore di cinema. A ben guardare però nemmeno Daniel è così appagato della sua vita, infatti tradisce in continuazione la moglie e non esita nemmeno un’istante quando gli si prospetta l’opportunità di farlo nuovamente, questa volta con la donna del suo alter-ego. Considerando solo l’anima thriller, il film sarebbe ben fatto nel costruire la tensione; purtroppo le derive simbolico-oniriche la spezzano, e il finale aperto con ragno gigante lascia lo spettatore con un sorriso beffardo più che con il senso di inquietudine che forse era l’obiettivo del regista.
La metafora della donna-ragno è banale, l’espediente narrativo del sogno lo è anche di più, e in congiunzione con il tema del Doppelganger rende tutto il film stantio quanto pretenzioso.
Se poi si pensa che Jake Gyllenhaal è stato il villain dell’ultimo film di Spiderman, lo sberleffo è assicurato: per chi vuole apprezzare le doti attoriali di Gyllenhaal consiglio piuttosto Zodiac, Jarhead o il classico Brokeback Mountain; per chi invece vuole gustarsi il suo bell’aspetto, allora consiglio di cuore Prince of Persia, tratto dal celebre videogioco.
Isabella Rossellini compare, per una manciata di secondi, nel ruolo della madre di Adam.
Voto: 1 Muffin
Per chi non ha capito bene il film, Villeneuve lo spiega alla lavagna
Non ho mai giocato ai videogiochi di Super Mario, ma ricordo molto bene la musichetta perché mio fratello invece ci giocava sempre con il Game Boy. Ricordo di avere visto tanti anni fa il film tratto dal videogioco, con Bob Hoskins nei panni di Mario e John Leguizamo in quelli del fratello Luigi, che oggi si trova su Amazon Prime: simpatico ma non proprio un capolavoro, tanto che è già stato annunciato un nuovo film d’animazione per il prossimo anno.
Oggi i miei bimbi, complice la pubblicità capillare dei nuovi videogiochi e di tutto il merchandising, ma soprattutto il ritrovamento di quei reperti archeologici che sono i vecchi Game Boy dello zio, si sono appassionati alle avventure dell’idraulico baffuto più famoso del mondo.
Per partecipare in qualche modo a questa loro nuova passione ho ideato alcune rime.
Visto che ultimamente, tra impegni vari e aria di vacanze, sto pubblicando molto meno assiduamente, ne approfitto per un piccolo post video-ludico-poetico.
Dopo aver scoperto il marito in flagrante tradimento con la sua migliore amica, Sandra (Imelda Staunton) abbandona il fedifrago, la casa e la sua vita lussuosa per rifugiarsi dalla sorella Bif (Celia Imrie). Bif la accoglie con affetto ma presto i caratteri opposti delle sorelle porteranno all’attrito tra le due: se Sandra è composta, seria e posata, Bif al contrario è esuberante, disordinata e passionale. Per aiutare Sandra, Bif la coinvolge suo malgrado in un corso di ballo. Inizialmente Sandra sembra rifiutare ogni aspetto della vita della sorella, dalla marijuana alle sue frequentazioni, poi, poco alla volta, si lascia travolgere dalla sua energia e dal suo amore per la vita, fino a riscoprire se stessa, attraverso la danza (in cui eccelleva da bambina) e anche grazie a un sentimento inaspettato che la legherà sempre di più allo scapestrato (ma solo in apparenza) Charlie (Timothy Spall).
La storia del cinema in generale, e quella del cinema inglese in particolare, trabocca di storie in cui i personaggi, dopo una crisi esistenziale ed emotiva, ritrovano se stessi e la gioia di vivere grazie all’espressione, spesso artistica, della loro personalità più autentica. Succede ad esempio in Billy Elliot, Full Monty, Calendar Girls, tutte ottime commedie di formazione. Ricomincio da Noi appartiene allo stesso filone, sebbene sia un film dolceamaro che alterna momenti comici a momenti drammatici senza far prevalere nessuno dei due toni, anche se, forse proprio per questo suo essere ibrido, risulta meno riuscito degli altri che ho portato ad esempio. La forza del film quindi non si trova nella trama, piuttosto convenzionale, e nemmeno nei personaggi, che sono i caratteri tipici del genere, ma nel talento degli attori che, pur imbrigliati in questa struttura consolidata che non si prende alcun rischio riescono a restituire dei personaggi che, se non a tuttotondo, diventano delle figure aggettanti cui ci si affeziona e di cui si seguono con piacere le vicissitudini. Se il contrasto tra Imelda Staunton e Celia Imrie è il cuore della storia, il vero elemento d’interesse è il personaggio di Charlie, interpretato con spigliata dolcezza da Timothy Spall. Una curiosità: anche se non recitavano insieme, Imelda Staunton e Timothy Spall hanno preso entrambi parte alla saga di Harry Potter interpretando due personaggi spiacevoli, la tirannica preside Dolores Umbridge e il traditore Codaliscia. Consigliato a chi ha un debole per gli attori inglesi, per i film in cui si balla, per chi ama le storie leggere di riscatto personale, per chi vuole godersi un gruppetto di attempati ballerini inglesi che se la spassa per le strade di Roma.